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Roberto Benigni

Roberto Benigni è un regista toscano nato nel 1952. Definirlo soltanto un regista è riduttivo, dato che nella sua carriera ha svolto con successo anche i ruoli di: attore, showman e comico. Il mondo dello spettacolo è sicuramente il suo habitat naturale, più di descriverlo per la sua comicità dilagante, per la capacità strabiliante di appropriarsi della scena mettendosi al centro dell’attenzione e per le sue interpretazioni, commenti sulla Divina Commedia di Dante e sulla costituzione italiana, mi soffermerò unicamente sull’analisi dei film che lo hanno visto nel ruolo di regista.  Essi sono 8: Tu mi turbi, Non ci resta che piangere, Il piccolo diavolo, Johnny Stecchino, Il mostro, La vita è bella, Pinocchio, La tigre e la neve.

Tu mi turbi è composto da 4 racconti differenti tra di loro. Tutti trattano in qualche modo il tema della religione, con lo stesso regista a far da protagonista. Nel primo assistiamo a un monologo di Benigni mentre accudisce un bambino silenziosissimo, chiamato Gesù, come chiestogli dai genitori Giuseppe e Maria. I riferimenti alla storia del cristianesimo sono più che mai lampanti, proposti in chiave ironica divertono grazie alle capacità recitative di un ottimo Roberto Benigni. Gli insegnamenti che il regista fornisce al bambin Gesù fanno sorridere: sappiamo quanto gli saranno utili (come ad esempio la moltiplicazione del pane e dei pesci, i caratteri di Lazzaro e Giuda e molti altri ancora). La scena più esilarante si verifica con il tentativo di Benigni di fare un bagno al bambino, il quale però ha la particolarità di non immergersi nell’acqua come tutti, restandone al di sopra, camminandoci come se fosse del terreno. Sarà così possibile lavargli solo i piedi. Nel secondo racconto vediamo Benigni alla ricerca del suo angelo custode, che tutti hanno tranne lui. Appena lo ritrova scopre il perché della sua fuga, relativa al suo essere noioso e ripetitivo, privo di novità e stupore. Il bello di questo racconto sta nel colpo di scena, che ci fa scoprire come sia stato tutto un sogno. Il suo angelo (che poi altro non è che una donna di nome Angela) non è intenzionato a lasciarlo e per combattere la noia e socializzare con altre persone, sfrutta le feste in maschera organizzate in casa dal marito. Il racconto è ben presentato, sorprende come consiglia di fare anche in tutte relazioni umane, comprese quelle che diamo più per scontate. Nel terzo racconto viene messo sotto critica il sistema bancario, il tutto viene fatto in maniera eccezionale, tra le conversazioni di un Benigni molto ignorante mai avvicinatosi al mondo finanziario e i dipendenti di una banca. Il dialogo con il direttore (non casualmente chiamato Diotaiuti) è divertentissimo, di gran lunga lo spezzone di più alta comicità dell’intero film. In questo racconto vengono messe in evidenza alcune incoerenze di fondo degli intermediari finanziari, se visti attraverso un profilo molto umano e distaccato. Fantastici alcuni giochi di parole, sfruttando benissimo i diversi significati che alcuni termini italiani possono avere (investiti e mora su tutti). Il quarto racconto è il meno bello. Benigni dimostra la sua capacità di essere inarrestabile quando si lancia in qualche lungo sproloquio, al quale riesce spesso a dare fascino per la sua capacità di trasmettere emozioni e ironia. Da questo racconto deriva il titolo del film: tu mi turbi è il nome fantasioso che Benigni attribuisce a uno dei suoi personaggi, nel tentativo di combattere la noia derivante dal suo lavoro. Il riferimento a Dio qui sta in una banale sfida a far nevicare, evento che infine, paradossalmente, avverrà per davvero. Nel complesso il film strappa molti sorrisi, fornisce qualche spunto di riflessione interessante e rappresenta un buonissimo debutto, anche nei panni da regista, per Roberto Benigni.

Non ci resta che piangere è un film del 1984 recitato dalla coppia Benigni-Troisi. La trama si sviluppa in un viaggio nel passato: in seguito a una stradina alternativa presa in auto da Saverio (Benigni) e Mario (Troisi). I due cambiano periodo storico e si trovano catapultati nel 1492. Nel diverso contesto Mario manifesta subito insofferenza, desideroso di tornare nell’epoca in cui ha sempre vissuto. Saverio tenta invece di adeguarsi, cambiando i suoi usi e costumi. A far cambiare idea a Mario sarà una bellissima donna della quale si innamora, catturando le sue simpatie grazie a delle canzoni che le canterà, spacciando per sue opere ancora sconosciute come: Yesterday dei Beatles, l’inno di Mameli e altre ancora. Invidioso dell’amico, Saverio riuscirà a farlo allontanare da questa donna convincendolo ad andare con lui in Spagna, per evitare a Cristoforo Colombo di partire con le caravelle, in maniera tale che non possa scoprire l’America e sua sorella non incontrare l’americano che nel 1900 la sta facendo soffrire. Il loro tentativo fallirà, a differenza della loro amicizia che ne uscirà comunque sempre rafforzata. Non ci resta che piangere è un film che non mi è piaciuto. Lo trovo incapace di sfruttare a pieno una buonissima idea, risultando poco divertente, a tratti pesante, noioso e insensato. Mi sarei aspettato molto di più dalle idee che potevano avere trovandosi in un’epoca passata, con tutto quello che già sanno. Avrei gradito una spiegazione del come sia possibile che si siano risvegliati nel 1942. I dialoghi sono anch’essi inconcludenti, spesso confusionari, non fanno sorridere e neanche riflettere. In nemmeno due ore di film ho trovato anche diversi buchi nella trama e comportamenti illogici da parte di qualche personaggio. A difesa del film accetto solo l’alibi del periodo, ritengo vada infatti contestualizzato, oggi è meno semplice apprezzarlo anche perché non colpisce nemmeno l’idea di fondo del viaggio nel passato, tema sfruttato innumerevoli volte, ma probabilmente non così tante già da prima del 1984.

Il piccolo diavolo è stato per larghi tratti girato a Taormina, nell’anno della mia nascita nello stesso paese. I protagonisti del film sono un prete chiamato Maurizio e Giuditta (interpretato da Benigni) che rappresenta il diavolo, fatto uscire dal corpo di una anziana donna, dal prete attraverso un esorcismo. A differenza di quanto si può immaginare, il diavolo non è un essere malvagio ma è più paragonabile a un bambino. Pur avendo il corpo di un uomo adulto e sapendo parlare correttamente in italiano, non ha alcuna idea delle dinamiche del mondo, non conosce assolutamente nulla ed è portato a emulare gli altri senza capire il senso delle sue azioni. Questa sua innocenza, mista a totale ignoranza, porta all’esasperazione Maurizio che essendo l’unica persona che conosce viene continuamente da lui ingenuamente perseguitata per farsi spiegare ogni cosa, mettendolo spesso in imbarazzo. Giuditta regalerà momenti di alta comicità, su tutti durante una cena con dei colleghi di Maurizio quando racconterà loro di esser entrato dentro una donna anziana e averla posseduta per due giorni senza mai uscirne, con il fraintendimento dell’atto sessuale che concepiscono le persone al suo tavolo. Faranno ridere molto anche le ripetizioni che Giuditta dirà spesso dopo averle sentite dire per strada, due su tutte: “alla stazione” (rivolto a chiunque per strada dopo che un passante avevo chiesto a lui informazioni stradali) e “sono Gloria ho lasciato la patente sul tavolo accanto alla frutta” (sentita dire da una donna al citofono e da lui ripetuta a pappagallo in ogni situazione del genere). Conosciuta Nina, una bellissima e disinibita donna interpretata da Nicoletta Braschi, Giuditta scoprirà l’amore, sul quale continueranno a sprecarsi i doppi sensi e le diverse interpretazioni tra l’ignoranza del diavolo e quel che sanno tutti gli esseri umani. Il film termina con Nina che si impossesserà del corpo di Giuditta, entrando dentro di lui dopo essersi scoperta anche lei un essere demoniaco, come testimoniato da una foto che le è stata scattata ma nella quale non è apparsa, così come Giuditta non veniva riflesso sullo specchio alla vista degli altri. A livello narrativo il film non eccelle e, se è vero che alcune scene sono davvero divertenti, altre lo sono meno ed evidenziano più che altro la stupidaggine di alcuni personaggi che si comportano in modo totalmente irrazionale, solo per dare ironia a delle situazioni che risultano strane e paradossali ma, per i miei gusti, si rendono ridicole più che simpatiche (una su tutte quella della sfilata in chiesa, in sostituzione della messa). Sarei stato ancor più critico sul film se non me ne fossi innamorato per molte delle sue ambientazioni che ritraggono la mia città. Per me è stata una sorpresa ritrovarmi Taormina sulla schermo, non sapevo dove fosse stato girato il “Piccolo diavolo”. L’ho subita riconosciuta la “perla dello Jonio” (così Taormina è con pieno merito chiamata) fin dalle riprese alla stazione dei treni, continuando con l’hotel San Domenico, la piazza dove ballano (in realtà è un parcheggio), il meraviglioso corso Umberto, i bar in piazza IX Aprile, piazza Varò, la villa comunale, via Pirandello nei pressi del terminal bus, fino alla via Roma, nella quale si conclude il film, con Nina dentro il corpo di Giuditta che va via, togliendosi le scarpe.

Johnny Stecchino viene proposto al pubblico nel 1991. Si tratta di un film estremamente divertente, composto da una comicità dilagante alla quale è impossibile restare indifferenti. L’ho visto tantissime volte, fin da bambino mi ha stregato e anche più avanti nel tempo, ogni volta che lo trovavo trasmesso, non riuscivo a smettere di guardarlo. Il film scorre in maniera molto fluida, senza avere pause dalle tante scene esilaranti che si susseguono. La trama di basa sulla somiglianza tra Dante e Johnny, entrambi interpretati da Benigni, bravissimo a sdoppiarsi in questo doppio ruolo tanto differente. Dante è l’autista di uno scuola bus, un uomo onesto (tranne per la truffa, piuttosto goffa ma divertente, ai danni dell’assicurazione e l’abitudine di rubare banane dal fruttivendolo). La vita di questo simpatico e ingenuo autista cambia quando incontra Maria, la solita Nicoletta Braschi, che convince Dante a trasferirsi a Palermo da lei, dopo essersi accertata che con dei piccoli accorgimenti (un neo disegnato e uno stecchino in bocca) l’autista risultasse preciso e identico a suo marito: un pentito di mafia, costretto a nascondersi per non venire ucciso. Arrivato a Palermo, Dante viene accolto dal presunto zio di Maria, un cocainomane che fa credere al sosia di Johnny di far uso di un medicinale per il diabete. Nel parlargli di Palermo, strapperà qualche risata il riferimento dello zio alle piaghe della città, rappresentate dalla siccità e dal traffico, senza fare accenno alla mafia. Lo scopo di Maria è quello di far uccidere Dante, facendo credere alla mafia di aver eliminato suo marito. Dante interpreta l’astio verso di lui e i tentati omicidio con l’intenzione di vendicare delle banane rubate, dando vita a una serie di scene simpaticissime. Quando Maria si renderà conto della differenza tra la bontà e innocenza di Dante e la meschinità e crudeltà di Johnny (che non ammetterà mai di assomigliare davvero a Dante, esclamando spesso la celebre frase: “non mi somiglia per niente”) deciderà di consegnare ai mafiosi il marito, lasciando tornare Dante sano, salvo e inconsapevole in Lombardia. Maria si innamorerà dell’autista, come lui lo è di lei da prima di partire per Palermo. La conclusione del film non è però una scena smielata tra i due, ma l’ennesimo risvolto comico, con Dante che darà una bustina di cocaina a un ragazzo handicappato, passeggero del suo autobus con il diabete, che reagirà eccitatissimo all’assunzione della droga, per l’inconsapevolezza di Dante che non ha mai capito effettivamente nulla di quanto gli è capitato.

Il mostro esce nelle sale cinematografiche durante il 1994, presentandosi come film comico nonostante una trama che può avere la parvenza del thriller. Roberto Benigni, le cui doti recitative si confermano notevoli pur se in ruoli sempre molto simili tra di loro, interpreta il ruolo di uno squattrinato poco intelligente che per via della sua goffaggine e il concatenarsi di coincidenze incredibili, viene ritenuto dalla polizia il famigerato “mostro”, un serial killer che ha già ucciso un’abbondante decina di donne. Per arrestarlo, gli mettono alle costole una poliziotta (la solita Nicoletta Braschi) che lo provoca in tutti i modi per aver conferma che sia lui il “mostro” e finalmente poterlo arrestare. Infine si scoprirà finalmente la vera identità del killer: l’insegnante di cinese di Roberto Benigni che verrà arrestato dalla Braschi, intanto innamoratasi di Benigni per il tempo trascorso in sua compagnia, ammaliata dalla sua originalità e modo di vivere scherzoso, prendendo tutta la sua vita come un gioco, tra scherzi ai condomini e leggerezza nel vivere nonostante una difficoltosa situazione economica che affronta con stratagemmi geniali riuscendo a fare tutto senza pagare. Ancora una volta Benigni basa la sua comicità sul fraintendimento e l’inconsapevolezza del personaggio che interpreta. Sinceramente trovo ripetitiva la sua ilarità, basata sempre sulla stessa idea. Se vista una volta sola risulta esilarante, ma a guardare tutti i suoi film si capisce in maniera lampante come sia di fondo sempre la stessa cosa. Il film lo definirei demenziale, molte scene sono completamente irrealistiche, messe lì solo per far ridere, a costo di far sembrare poco perspicaci i personaggi. Meglio di numerosissime altre commedie, ma nulla di eccezionale.

La vita è bella è giustamente considerato, per distacco, il miglior film di Roberto Benigni. Vincitore di tre oscar: miglior film straniero, miglior attore protagonista e migliore colonna sonora, “La vita è bella” meravigliò ed emozionò tutta Italia, e non solo, quando venne presentato al pubblico nel 1997. La storia vede inizialmente la nascita dell’amore tra Guido e Dora, i quali si sposano e hanno un figlio: Giosuè. Sei anni dopo, proprio il giorno del compleanno del bambino, Guido e Giosuè (entrambi ebrei) vengono deportati in un campo di concentramento. Dora li segue volontariamente ma potrà interagire soltanto una volta con lo sguardo con suo marito nel periodo trascorso sotto il comando rigido dei tedeschi. Per non far soffrire il proprio figlio, Guido ha l’incredibile idea di fargli credere che stanno andando a fare un gioco a premi, il cui vincitore riceverà un carrarmato vero. In questa recita Benigni si supera, specialmente quando si spaccia come interprete del comandante tedesco, traducendo le sue atroci direttive con delle banalità che fanno ridere il figlio, tenendolo sempre spensierato e inconsapevole per riuscire a vincere il premio finale del gioco a cui crede di partecipare come regalo di compleanno. Guido riuscirà a strappare un sorriso a suo figlio, marciando goffamente, quando lui lo vede camminare dinanzi a un soldato tedesco, che in realtà lo sta portando in un vicolo per ucciderlo. Il film si conclude con l’arrivo degli americani e la felicità di Giosuè che crede di aver vinto il carrarmato, quando gliene si presenta uno davanti agli occhi. Le ultime parole sono riservate alla voce narrante del figlio di Guido ormai cresciuto e consapevole di tutto, che chiude il film con questa frase: “Questa è la mia storia, questo è il sacrificio che mio padre ha fatto, questo è stato il suo regalo per me”. Un film toccante come “La vita è bella” difficilmente può essere prodotto. Le tante scene comiche trasmettono al telespettatore delle risate amare, creando in lui uno stato d’animo malinconico, cupo, preoccupato, triste e commosso. Facile scappi qualche lacrima e ci si ritrovi a riflettere sulla follia commessa in quel periodo storico, ben consapevoli che il contesto del campo di concentramento non è affatto frutto della fantasia del regista. Come non mai a Benigni riesce la sua straripante ironia in una situazione tragica, come a volerci dire che la vita va sempre presa con il sorriso anche nelle più dolorose avversità. Questo film mette in chiara mostra anche l’amore che un padre può avere per il proprio figlio, elevandolo al di sopra di ogni cosa, trasmettendo gioia di vivere anche quando dovrebbe esserci solo esasperazione.

Pinocchio è un film del 2002, per il quale mi sento di dire siano stati sprecati troppi soldi per produrlo, facendolo risultare tra i film più costosi di tutta la storia del cinema italiano di quei tempi. Tratto dal celebre romanzo di Collodi, narra le vicende di un burattino (incomprensibilmente parlante e dotato di caratteristiche prettamente umane) costruito da mastro Geppetto da un tronco che trova dinanzi casa sua. Pinocchio, questo il nome dato al burattino, è discolo e irrefrenabile, combina continuamente guai e fa disperare il suo “babbo”. In realtà Pinocchio è di animo buono ma, a causa della sua esagerata stupidità e ignoranza, si lascia trascinare sempre dalle tentazioni che gli vengono offerte con incredibile puntualità da vari personaggi diabolici. Tra questi troviamo il gatto e la volpe (ridicoli come i fichi d’india che li interpretano) e Lucignolo (bravo l’attore ma inconsistente il personaggio). Tra i protagonisti non può mancare Nicoletta Braschi nei film di Benigni, stavolta nei panni della fatina, affezionatasi a Pinocchio come dimostrano i suoi tentativi di portarlo sulla retta via. Sia la fatina che Geppetto moriranno per esser poi ritrovati vivi dal burattino, il quale dopo numerosi errori e peripezie in ambiti fantastici, capirà di dover davvero mantenere le promesse, non dire più bugie (le quali gli fanno lo strano effetto di vedergli allungare il naso) e guadagnarsi da vivere lavorando onestamente, dopo esser stato a scuola. La morale del film è di una banalità imbarazzante, adatta solo ai bambini più piccoli. L’intera pellicola fa storcere continuamente il naso, dimostrandosi incapace di emozionare e di far ridere. Dopo la “vita è bella” Benigni fa un enorme passo indietro, i due film non sembrano neanche dello stesso regista e la stessa interpretazione da attore del toscano risulta peggiorata. Benigni, nel ruolo dell’inconsapevole ha stufato, in questo film ha l’aggravante ulteriore di non portare da nessuna parte, presentando una centinaia di minuti che si faticano addirittura a terminare.

La tigre e la neve è l’ultimo film di Benigni. Uscito nelle sale cinematografiche nel 2005 esalta principalmente il sentimento d’amore provato dal protagonista (chiamato Attilio, interpretato come sempre dallo stesso Benigni) nei confronti di Vittoria, una scrittrice che sta scrivendo la biografia di un poeta arabo. Attilio svolge anche lui, come professione, quella di poeta. Un suo monologo rivolto a dei giovani studenti merita tanti applausi, rappresentando una delle più belle parti dell’intero film. Lo trascrivo per intero: “Su su… svelti eh, svelti, veloci… Piano, con calma. Non v’affrettate, eh. Poi non scrivete subito poesie d’amore, eh! Che sono le più difficili aspettate almeno almeno un’ottantina d’anni eh… Scrivetele su un altro argomento, che ne so su… su… il mare, il vento, un termosifone, un tram in ritardo, ecco, che non esiste una cosa più poetica di un’altra, eh? Avete capito? La poesia non è fuori, è dentro! Cos’è la poesia? Non chiedermelo più, guardati nello specchio: la poesia sei tu! E vestitele bene le poesie! Cercate bene le parole! Dovete sceglierle! A volte ci vogliono 8 mesi per trovare una parola! Sceglietele, che la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere! Da Adamo ed Eva: lo sapete Eva quanto c’ha messo prima di scegliere la foglia di fico giusta? Come mi sta questa, come mi sta questa, come mi sta questa… Ha spogliato tutti i fichi del paradiso terrestre! Innamoratevi! Se non vi innamorate è tutto morto! Morto, tutto è… Vi dovete innamorare e diventa tutto vivo, si muove tutto, dilapidate la gioia! Sperperate l’allegria! Siate tristi e taciturni con esuberanza! Fate soffiare in faccia alla gente la felicità! E come si fa? Fammi vedere gli appunti che mi son scordato! Questo è quello che dovete fare! Non son riuscito a leggerli! Per trasmettere la felicità bisogna essere felici. E per trasmettere il dolore bisogna essere felici. Siate felici! Dovete patire, stare male, soffrire, non abbiate paura a soffrire, tutto il mondo soffre! Eh? E se non avete i mezzi non vi preoccupate, tanto per fare poesia una sola cosa è necessaria: tutto! Avete capito? E non cercate la novità, la novità è la cosa più vecchia che ci sia. E se il pezzo non vi viene da questa posizione, da questa, da così, be’… buttatevi in terra! Mettetevi così! Eccolo qua… Oh! È da distesi che si vede il cielo! Guarda che bellezza, perché non mi ci sono messo prima!? Cosa guardate? I poeti non guardano, vedono! Fatevi obbedire dalle parole! Se la parola… “muro”! “Muro” non ti dà retta… non usatela più per 8 anni, così impara! “Che è questo? Boh! Non lo so!” Questa è la bellezza! Come quei versi là, che voglio che rimangano scritti lì per sempre!…Forza cancellate tutto”. La prova più grande dell’immenso amore di Attilio verso Vittoria (che nel finale scopriremo esser già la madre delle sue figlie) ce l’abbiamo quando la donna resta gravemente ferita a Baghdad da una bomba. Informato dall’amico Fuad (il poeta del quale Vittoria stava scrivendo la biografia) Benigni riesce ad arrivare in Iraq (fingendosi medico della croce rossa italiana, dato che non esistono voli a causa della guerra) per stare vicino alla sua amata e dare il suo aiuto per salvarla. L’approdo di Attilio risulta provvidenziale e i suoi tentativi estremi, di procurarsi le medicine assenti nell’ospedale di Baghdad, permettono a Vittoria di risvegliarsi senza che lei si possa comunque accorgere della sua presenza in Iraq.  Di quest’ultima ne verrà a conoscenza soltanto alla fine del film, quando vedrà di sfuggita la sua collanina sul collo di Attilio, capendo di esserne anche lei profondamente innamorata, dopo il suo ennesimo gesto di incredibile riguardo nei suoi confronti. L’amore ceco e incondizionato porta il protagonista anche a effetti negativi, quale quello di ignorare i segnali del suo amico Fuad che terminerà le sue angosce suicidandosi. Particolarmente significativa una sua frase sulla situazione affrontata dal suo paese: “Lo sai perché si fanno le guerre? Perché il mondo è cominciato senza l’uomo e senza l’uomo finirà.” Il vero punto forte del film, non esente da una sceneggiatura approssimativa e dal segno (relativo al titolo) ricevuto da Vittoria che personalmente non mi ha entusiasmato ed è risultato prevedibile, sta nell’interpretazione di Benigni, ancora una volta abilissimo a far dell’ironia dietro a una situazione tragica, riuscendo sempre e comunque a sdrammatizzare. I personaggi di Benigni hanno inoltre l’enorme pregio di riuscire in questo con cognizione di causa, in proposito fantastico il discorso di Attilio, che denota anche il forte amore che prova, a un vecchio farmacista, da lui implorato per aiutare la sua Vittoria in fin di vita: “Se muore lei, per me tutta questa messa in scena del mondo che gira, possono anche smontare, portare via, schiodare tutto, arrotolare tutto il cielo e caricarlo su un camion col rimorchio, possiamo spegnere questa luce bellissima del Sole che mi piace tanto… ma tanto… lo sai perché mi piace tanto? Perché mi piace lei illuminata dalla luce del sole, tanto… portar via tutto questo tappeto, queste colonne, questo palazzo… la sabbia, il vento, le rane, i cocomeri maturi, la grandine, le 7 del pomeriggio, maggio, giugno, luglio, il basilico, le api, il mare, le zucchine… le zucchine…”.

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