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I francofortesi e la loro galoppante attualità

Nel volermi spingere a tentare di trovare qualche aspetto positivo in una pandemia globale, a primo impatto speravo di poterlo notare nel clima di unità che si sarebbe potuto creare tra gli uomini che, con lo stesso nemico in comune, potevano istaurare un rinnovato spirito di comunità, vogliosi di tornare a stare insieme.

A un anno e mezzo di distanza, con l’arrivo dei vaccini, mi risveglio disilluso nei confronti di questa speranza. Il proliferare delle polemiche sul green pass istituito dal governo, dimostrano come un clima di tutti contro tutti rimanga dominante in questa società estremamente divisa e frammentata. Al trovare amici, si preferisce generare nemici per combattere delle guerre nelle quali tendere a volersi schierare dalla parte del giusto, per elevarsi, nel dominio del proprio egoismo. L’uomo mira a comandare sugli altri, desiderando schiacciarli per sentirsi il re della giunga nella quale decide di operare. Ripudiare l’incontro, trascina in trionfo la difesa cieca di quanto superficialmente sostenuto, come a indossare i vessilli di uno specifico schieramento, per cui scioccamente combattere per sentirsi superiori.

Questo clima di lotta continua, lo si denota da tanti anni in ogni strato della società. Il sistema capitalistico incentiva i conflitti, proponendo una serie di piaceri indotti che, offuscando i più reconditi, rendono l’uomo impossibilitato ad avvertire un sano appagamento personale, lasciandolo vagare alla continua ricerca di quanto gli sembra attraente ma in realtà non riesce a identificare, attribuendogli un vero significato. Un esempio azzeccato ci deriva dal fondatore della scuola di Francoforte: Horkheimer. Il filosofo tedesco, riprendendo il canto delle sirene narrato nell’Odissea, faceva notare come ascoltare quel canto attraente poneva i marinai a sacrificarsi per soddisfare Ulisse, mostrando come il mondo vizi i capricci di pochi in cambio degli sforzi dei tanti subalterni i quali, a loro volta, da sfruttati si accontenteranno di sentirsi minimamente inglobati, trasformandosi in rare occasioni da servitori a serviti.

La natura umana risulta succube di un sistema repressivo dettato da questa tipologia di società industriale, la quale si fonda sul lavoro alienato e sfruttato. Ne patiscono gli istinti vitali e l’uomo basa la sua vita sulla prestazione quantitativa. Tutto si calcola, inglobato in qualche vacua numerazione a discapito della qualità. La libido preconfezionata che si sprigiona non appaga, le omologazioni si rivelano così delle ulteriori gabbie per quanto si presentino sotto forma di libertà. Per dirlo alla Marcuse, la vita si svolge in mono dimensione, infelice e dominata dalla diffidenza che insabbia e non consente libera espressione dei veri appetiti.

Quanto di più prezioso possieda davvero l’essere umano è il tempo, che viene dettato e suggerito suonando da costrizione. Ci sono i momenti per produrre e i ben più ridotti per consumare come inculcato. Queste vite pianificate, senza estro, vitalità e impulsi genuini, generano dei consumatori al posto che degli individui con un’identità personale. I bisogni vengono suscitati dall’esterno e come dei fruitori passivi li si asseconda alla stessa maniera di tutti gli altri. Di questi concetti ne è padrone Adorno che sottolinea il potere della comunicazione di massa che funge da distrazione globale, coi pochi che dominano sui molti, i quali avvertono una falsa parvenza di libertà difficile da smascherare perché ben più subdola e radicata di quella evidente dei regimi totalitari. La tecnologia diventa dominante nei confronti dell’uomo e della natura, al posto da fungere a loro favore come sarebbe dovuta essere concepita e alimentata. L’unica via d’uscita può essere nell’arte sovversiva, affinché infligga un colpo letale al tecnicismo umiliante e annichilente, arrivando a innescare delle novità e meraviglie interiori al posto di lasciarsi scaricare (più che installarle di propria volontà) dalle applicazioni per smartphone.

Istaurare dei rapporti basati sul dialogo – per dirla alla Buber sull’Io/Tu contrapposto all’Io/Esso – consentirebbe di confrontarsi in incontri autentici, assorti nel presente, cogliendo l’unicità dell’altro, evitando monologhi dove si tende a non voler ascoltare, chiudendosi in silenzi che danno l’illusione di sentirsi forti o in ambizioni vuote che finiscono col mal interpretare alcuni piaceri della vita, fungendo da vacui lenitivi che tengono distanti da sé e rendono le relazioni fugaci. La parte genuina e creativa della personalità trionferebbe, captando come si diventa io nel tu, nell’incontro con altre individualità. Questo mescolamento è l’unica via per capirsi, condividere gioie e dolori, andando oltre ogni genere di manipolazione, di relazioni tramite mezzi in lotta per il potere, con l’io narcisistico che prende le redini e tenta di piegare il mondo e gli altri alla propria volontà, categorizzando senza voler porre sincero ascolto e voglia di trovarsi in profonda intimità privata e condivisa.

In quest’epoca c’è molto da poter far girare a proprio favore. Urge però la giusta mentalità, disinvolta e consapevole nell’evitare di innescare i pericoli latenti di questo mondo moderno che non consente soddisfazioni e pone a presunzioni e megalomanie incompatibili con la vera gioia e profonda unione. Discutere sullo stesso piano con la propensione a prendersi cura di chi si ha vicino è osservabile in alcuni esempi genitoriali e a volte ancor più nei nonni, simboleggianti una sorta di resistenza a facili e deleterie tentazioni che allontanano dai veri e incancellabili sentimenti, composti inevitabilmente anche da difficoltà e sofferenze bisognose di compartecipazione accesa, instancabile e costante.

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