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Il mondo e l’uomo

Del fumo si eleva verso il cielo, imprecisata carne viene arrostita per strada a due passi dal tempio del gioco del calcio: il Maracanà. Tanti bambini con la maglia a strisce rossonere del Flamengo si rincorrono, altri a torso nudo tirano calci a lattine vuote, in mancanza di un pallone. Ondate di persone escono dalla metro, altre si riversano con mezzi di trasporto privati. I controlli sono celeri e superficiali, vengono sequestrati soltanto dei fischietti venduti pochi metri prima dall’ingresso. Lo slalom tra la gente del posto, girando intorno al gigantesco impianto sportivo, conduce finalmente il signor Limbadi all’entrata nel suo settore. L’emozione sale difronte a quella distesa verde, il tifo è diverso dai ricordi europei ma la passione per il calcio dei brasiliani non è affatto deludente. Tutti ammassati, come nelle strade dove imperversa il carnevale nei blocos lungo tutta Rio, si contano sulle centomila presenze. Lo spettacolo è tutto sugli spalti, in campo soltanto qualche scarto del campionato italiano. I padroni di casa vincono e lasciano gioire il popolo carioca. Facile è perdersi di vista all’uscita, l’esodo è ancor più clamoroso dell’ingresso, l’orario è uguale per tutti. Circondato da vita vera, autentica, genuina, vibrante e variopinta, Limbadi riesce a raccapezzarsi e far ritorno in un luogo più o meno sicuro, dove una stanza anni 70 lo coccola e isola. La doccia dura molto più del previsto, per togliersi il sudore che l’afa brasiliana appiccica addosso anche la sera e decontaminare il proprio corpo (almeno mentalmente con in testa la canzone intitolata “Lo Shampoo” di Giorgio Gaber) da possibili infezioni causate da tutte quelle interazioni, a stretto contatto con una moltitudine di gente, non tutta perfettamente pulita e sistemata. Uno sguardo al telefono, prima di addormentarsi, e Limbadi minimizza la paranoia che imperversa tra le chat che riportano notizie dalla sua Italia, dove un certo virus sta provocando qualche linea di febbre alla popolazione. Il contagio non lo preoccupa, pensa che se la caverebbe facilmente, in Brasile non se ne ha la minima percezione e il distanziamento sociale sembra quanto di meno probabile si possa pensare, considerando gli enormi assembramenti che mai nella sua vita si erano visti così pomposi. Al risveglio, rinvigorito da una profonda dormita, prima di raggiungere in pochi passi la spiaggia di Copacabana, l’ascensore conduce al piano terra per la colazione. Un cake al cioccolato, o forse bolo in portoghese, aspetta Limbadi che ne resta puntualmente insoddisfatto dal gusto, nonostante il bell’aspetto. Immancabilmente in infradito, canottiera e costume, succede qualcosa di strano quando a pancia piena tenta di uscire dalla hall. Marcos, il solito impiegato incaricato ad aprire e chiudere la porta, stavolta decide di aderire solo al 50% delle sue mansioni e si occupa, vigile, di tenerla perentoriamente sbarrata. Rio de Janeiro è stata proclamata zona rossa! Da verde oro tutti samba, sole, mare e festa, a chiusi in casa. Per le enormi strade trafficatissime fino a qualche giorno prima, si vedono unicamente persone coricate sui marciapiedi, ancora assonnate. Solo chi abita le favelas gira per la città, indisturbato e disorientato. Il signor Limbadi avrebbe dovuto forse terrificarsi, se non almeno preoccuparsi della situazione, non avrebbe però goduto dell’appellativo “il limpido” se ciò si fosse verificato. La sua pacatezza e imperturbabilità rimasero salde, lasciandogli impiegare solo pochi istanti per elaborare la situazione e non innervosirsi. La smisurata fiducia di base verso il prossimo, influenzata da un’infanzia felice, sicura e protetta, lo hanno reso quasi ignaro delle meschinità e della brutalità dell’umanità, andando a considerare quasi esclusivamente il bene in qualsiasi individuo. In questa vicenda ha subito visto un’occasione speciale, di contaminazione non da virus ma da mondo esterno, nudo e crudo, spoglio dai privilegi che sanno essere anche delle catene limitanti. Quando accade qualcosa è impossibile stabilirne gli effetti a lungo periodo ed è sciocco interpretare subito l’accaduto come positivo o negativo. Per “il limpido” si presentava l’occasione per un’avventura, la sua capacità di fantasticare e sognare aveva già rivoluzionato la realtà, rendendola da monotona a entusiasmante. L’euforia interiore di cui si era pervaso sembrava colma di ingenuità, non poteva conoscere cosa gli sarebbe accaduto restando bloccato ben oltre la data del volo intercontinentale di ritorno dal Brasile. L’apertura alla vita in maniera giocosa, evitando di vedere l’imperfezione esistente che si fosse generata, gli consentiva di utilizzare i suoi ideali per mutare attivamente il presente, senza piegarsi a interpretarlo nel dramma. Non sapeva ancora che prove lo avrebbero atteso, le sue credenze erano pronte a mettersi in discussione, da quest’improvvisa vicenda ne sarebbe uscito in qualche modo arricchito.

Marcos venne presto esonerato dal rimanere dinanzi alla porta, considerando che nessuno sarebbe più entrato o uscito. La sua mansione tanto monotona, non era incline al suo carattere. Il giovane brasiliano amava esplorare e mostrava una profonda insofferenza a causa delle limitazioni dovute dal virus. Marcos mal sopportava le routine consolidate ed era abituato a vivere – fuori dagli orari lavorativi – sempre in giro, senza restarsene mai in casa. Il clima di Rio, in tutti i mesi dell’anno, favoriva la sua attitudine. Marcos non aveva vestiti eleganti per uscire e trovava sempre un modo per divertirsi, anche da solo considerando non potesse essere continuamente spalleggiato (nel suo non fermarsi mai). La spiaggia era il suo habitat naturale, praticava ogni sport sulla sabbia di Copacabana. Senza esser mai stato iscritto a nessuna scuola di calcio, tennis o pallavolo, ma neanche aver frequentato palestre, aveva molta dimestichezza con queste attività. Il suo fisico era scultoreo: asciutto e muscoloso, la carnagione chiara e sempre molto abbronzata ma il suo interesse era unicamente rivolto al potersi sfogare all’aria aperta, più che al ben vedersi allo specchio. Marcos non accettava la realtà, era conscio dei rischi del virus ma, fosse dipeso da lui, avrebbe gradito correrli pur di uscire. Una vita statica, da recluso, non valeva neanche la pena viverla. Il presente non era solito saperselo godere, per lui gli attimi andavano solo bruciati, nella rapidità volta a raggiungere e superare anche i seguenti. La sua impazienza, più di una volta, lo condusse a fare delle scenate, sentendosi condannato a lavorare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, quando mirava a fare il meno possibile in albergo, per poi liberarsi a correre e giocare. Le sue ambizioni erano criticate dai genitori, che lo consideravano uno scansa fatiche. L’ubbidienza non era mai stata il suo forte, al contrario del fratello che seguendo precisamente i dettami indicati dalla famiglia, si trovava però divorziato dalla moglie (che era stato spinto necessariamente a sposare) e con un lavoro rispettabile che gli rosicchiava ogni residuo energetico. Marcos invece sapeva per cosa vivere, anche se non era in grado di ben identificarlo e benché meno spiegarlo. Riconosceva di avvertire dei momenti di allegria sfrenata, surreali e sproporzionati a quanto effettivamente affrontasse. Un legame viscerale e verace col territorio intorno a lui, a quelle strade conosciute, fiero di calpestarle, con l’orgoglio di poterle popolare anche quando il periodo turistico andava a ridursi, rendendosi conto – anche mentre tutti vi si divertivano in alta stagione – che quegli spazi rimanessero profondamente suoi, sentendosi magnanimo nel concederli volentieri agli altri affinché potessero beneficiarne e trascorrere momenti indimenticabili che avrebbero per sempre custodito nei loro ricordi più preziosi. Questi attimi di euforia gli capitavano all’improvviso ma rintracciava come comune denominatore la possibilità di potersi sentire libero e assorto nella sua città. Marcos andava a ricercare continuamente questa lucida esaltante contezza, aldilà dalla sua facile professionalità legata all’aprire e richiudere una porta, inconsapevole che in Europa le porte automatiche fossero ormai presenti in ogni albergo come anche supermercato di provincia, col suo ruolo divenuto desueto come ormai impensabile.

Un suo collega piuttosto simile caratterialmente, impiegato nella hall, veniva chiamato Esmualdo e soprannominato “il folle” per via della sua caratterizzante irrequietezza e incapacità di tenere a bada gli istinti. Sembrava di trovarsi difronte a un bambino troppo cresciuto: gridava e gesticolava a ogni fastidio, risultando molto scenografico ed egocentrico. Poteva anche esser scambiato per autistico, quasi disconosceva la parola, eppure era tutt’altro che problematico, anzi era forse la dimostrazione di quanto lo fossero tutti gli altri. Dava sfogo alle sue pulsioni, senza temere il giudizio altrui, non lasciandosi limitare dalla società, col rischio di reprimere sé stesso. La sua esuberanza lo rendeva un continuo eccesso, gli altri lo odiavano o lo amavano, senza mezze misure. Esmualdo non poteva pertanto sopportare la rigida schematicità imposta dal virus, vivendo la situazione con tutta la creatività che avesse in corpo, senza badare alle conseguenze delle sue decisioni, come se il suo unico intento fosse quello di non frenarsi, di non accettare imposizioni esterne. Il sentirsi additato come incivile o irresponsabile non lo toccava, con assoluta lucidità sosteneva che la sicurezza non la desiderava, perché era una cella (sempre altrettanto insicura). Per lui, tutti avrebbero dovuto accettare il rischio, sottoponendosi anche al pericolo di ammalarsi, pur di non smettere neanche un momento di sentirsi liberi. Esmualdo non accettava neanche le minime contromisure, difendeva questa sua idea esasperatamente, anche al costo di perdere le sue parziali parti di ragione a causa di un estremismo sfrenato. A furia di tutelare il suo mondo interno, quello esterno gli era sfuggito di mano. Un problema assai raro, del tutto contrapposto a quanto vissuto dal resto degli individui di quest’era. Un uomo del tutto fuori dalla caverna platonica, dalla quale resta ben lontano, vivendo a modo suo aldilà delle regole della massa, pure quelle ben congeniate e universalmente utili. La mancanza di controlli ferrei in Brasile lo rendeva intoccabile, anche per questo aveva deciso di tornare in questa terra colma di concessioni. Lo sdegno che provava verso i cittadini di popoli tanto precisi e ordinati era imparagonabile a quello di chiunque verso un qualsiasi altro soggetto disgustoso. Gli anni trascorsi girovagando per il nord Europa li ricordava come privi di trasporto emotivo. Quest’idea e massiccia identificazione di sé stesso, lo condusse a non criticare più il suo Brasile. Esmualdo aveva imparato una preziosa lezione: far caso alla felicità. La quotidianità che affrontava era una lotta contro l’inerzia, assorto da quanto gli accadesse intorno, nel presente, senza orizzonti idealizzati o brame di possesso. La prospettiva di un El Dorado che avrebbe trovato tra la Germania e la Scandinavia ricordava come lo avesse lasciato vivere nell’attesa, per poi non trovare nulla, capendo come indietro ci fosse quanto desiderasse ma gli mancava la giusta propensione per saperlo vivere e apprezzare. A volte si sentiva solo: era difficile stargli affianco. Lui stesso considerava gli altri una massa di ipocriti, colti dalla necessità di sentirsi apprezzati e per questo disposti a uniformarsi in ogni maniera. Aveva conosciuto tante persone intimamente tristi e disperate ma capaci di fornire un’apparenza del tutto differente. L’importante per loro era non farsi conoscere, non lasciarsi scoprire. Lui desiderava l’esatto contrario, infischiandosene dei giudizi della gente che disprezzava e dalla quale voleva sentirsi differente.

Marcos ed Esmualdo erano potenziali buoni amici, considerando le similarità tra loro. Invece erano soliti litigare, sulle più disparate amenità. Era come se la loro carica rivoluzionaria, tutta quella ribellione che gli ribolliva in corpo, venisse convogliata su stupidaggini che, tronfi, gli faceva gonfiare i rispettivi petti per sostenere le proprie ragioni, convinti entrambi di trovarsi nel giusto. In queste circostanze sembrava vestissero delle uniformi di qualche casata della quale innalzare i vessilli. Entrambi, presi singolarmente, erano soliti sentirsi forti, potenti, capaci di tutto. Inseriti in un gruppo finivano col maturare uno spirito di sopraffazione verso gli altri, non riuscendo a collaborare, mirando a sottomettere il vicino per far prevalere la loro posizione. Questa tendenza li induceva a isolarsi, per riprendere presunta coscienza della loro superiorità e sentirsi meglio con sé stessi. Il becero egoismo che dimostravano, rapportandosi anche con le rispettive partner che avevano avuto per rispecchiare al meglio la loro persona, mirando puntualmente a prevalere per sentirsi di aver ragione, gli impedivano una vita piena e completa dal punto di vista affettivo. Ad attrarre le loro simpatie, vi era Alves de Souza: uno stregone brasiliano. Chiamato il “mago” riscontrava tanto credito da parte di chi popolava le favelas. In quelle zone le superstizioni erano molto sentite, ricoprendo un ruolo di primaria considerazione. Alves de Souza consigliava a Marcos ed Esmualdo di unirsi spontaneamente col prossimo, mostrando le loro fragilità. I giovani si innervosivano, si chiudevano in silenzi assordanti e scomparivano. Da soli, rimuginavano su come potessero essere il centro del mondo, lo volessero, anzi lo dovevano essere e lo erano. Per lo stregone, questa smania di sentirsi importanti e affermati era la loro condanna. La pretesa non poteva che generare infelicità. Lui era piuttosto interessato a offrire cure magiche e il signor Limbadi era convinto che il “mago” per primo vi credesse effettivamente. Alves de Souza si sentiva benedetto da Dio, sosteneva di avere un dono. La sua intenzione non era quella di truffare le persone, non richiedeva infatti neanche pagamenti, accettando soltanto delle offerte o meglio del cibo, senza badare al quantitativo. Traeva piacere nel credere di aiutare la gente, di mettere al servizio degli altri le sue abilità. La paura del contagio non fermava così le sue convinzioni, avvicinandolo agli ammalati per tentare di curarli. Per fortuna – o forse chissà per via dei suoi poteri miracolosi – il “mago” riuscì a non contrarre mai il virus, nonostante non usasse alcuna protezione e fosse stato in contatto con chi avvertiva tutti i sintomi provocati dal protagonista di questa pandemia.

A non godere della stessa buona sorte fu Orlando. Per lui venne chiamato “il mago” in albergo, nonostante un pragmatico come Orlando lo considerasse soltanto un ciarlatano, ritenendo qualsiasi metafisica un inganno per gli stupidi. I brasiliani, e i sudamericani in generale, consideravano gli occidentali come Orlando dei poveracci incapaci di affrontare la propria vita con magia. I sintomi di tosse, assenza di gusto e febbre molto alta, colpirono questo quarantenne che nel corso della malattia si sentì tanto solo e preferiva rimanere tale piuttosto che cedere a quelle inutili corbellerie. Orlando aveva provato a non chiedere aiuto, in quanto non era abituato a farlo, tendendo a estraniarsi dal mondo. Se si fosse anche solo potuto rivolgere a una farmacia, procurandosi del paracetamolo per arrestare l’influenza, sarebbe diventato meno celebre in zona Copacabana, rimanendo nel suo agognato anonimato. Inizialmente tentò di riporre grande fiducia nel suo sistema immunitario, sperava di poter essere asintomatico, presto si dovette però arrendere al vano tentativo di minimizzare gli effetti del virus. La scarsa fiducia verso il prossimo aumentava esponenzialmente in lui, che dopo questa brutta avventura aveva deciso ancor più di chiudersi irrimediabilmente a guscio in sé stesso. Nel suo passato aveva avuto brutte esperienze, sentendosi spesso sfruttato, imparando così che se qualcuno lo avesse avvicinato sarebbe stato per mera convenienza, spolpandolo fin quando avesse qualcosa di utile da offrirgli. Per certi versi era anche disposto a offrirsi al prossimo in cambio di compagnia, stando ai suoi servigi, aveva però paura di non bastare per sempre, il che gli causava tanta ansia. Il contagio gli insegnò, ancora una volta, che avrebbe dovuto far affidamento soltanto su sé stesso. Essere autarchici, quando non si è disposti a fare tante rinunce, a limitari gli agi, risulta però impossibile data la necessità umana di cooperare per migliorare il proprio stile di vita. Orlando era figlio del suo tempo e tutt’altro che disposto a un’esistenza da cane, potendosi considerare un uomo di successo. Era riuscito a conseguire una prestigiosa laurea e un ambito posto di lavoro. Vestiva ogni giorno in giacca e cravatta, riuscendo insaziabilmente a portare a termine tutti i suoi obiettivi, seguendo quella linea guida implicitamente indicata come ricetta per la felicità. La notte, sul suo letto, si trovava però troppo spesso a dover scacciare dei pensieri che si annidavano nella sua mente. Nel tentativo di entrare in intimità con sé, scrutava dell’oscurità e si sentiva insoddisfatto, vuoto, se non in qualche modo sporco. Crogiolandosi sotto le lenzuola faticava a prendere sonno, provava a distrarsi, a non affrontare e chiarificare quanto lo tormentasse. In questi frangenti ripeteva nella sua testa quei cavalli di battaglia che lo avevano da sempre motivato, che all’esterno venivano generalmente apprezzati. Doveva per forza esser fiero chi si era creato una carriera rispettabile, era attorniato di gente in ufficio, veniva stimato e anche temuto, riscontrando una riconoscenza sociale di alto rango per via della sua ottima posizione. Orlando si sentiva superiore agli altri per tutti questi titoli conquistati, quel senso di impotenza non doveva appartenergli, i canoni da sempre considerati, ricevuti in suggerimento e consacrati dalla società non potevano rivelarsi fasulli. Questo era il suo tormento, la mancanza di strumenti in suo possesso per saper interpretare la realtà, le infinite variabili incontrollabili in termini di insicurezza, quanto gli accadesse fuori dal suo controllo e da quel mondo di forzature burocratiche nel quale era stato catapultato, inghiottito e imprigionato. Sentiva che per lui non fosse mai andato nulla nel verso giusto e si faceva schifo nell’avvertire quel senso di goduria per il fatto che ora anche il resto dell’umanità fosse limitato dalla pandemia, sentendosi visceralmente invidioso di molti suoi simili, specialmente i più abbienti in termini di dedizione a una vita contemplativa e creativa. Lo sollevava quel mal comune, nonostante fosse stato ancora una volta lui particolarmente sfortunato ad averne subito gli effetti più devastanti in prima persona, sulla sua pelle.

Il signor Limbadi era preoccupato per l’idea che si era fatto sulla gestione politica in Brasile. Il governatore, un certo Saldoao, si atteggiava da sovrano dispotico, fornendo l’impressione di trasformarsi sempre più in tiranno. Quest’uomo, di bassa statura e magra costituzione, adorava mostrarsi difronte alle telecamere, vestire sfarzosamente e attuare atteggiamenti altezzosi, che lo facessero sentire una persona importante, autoritaria e superiore. Sembrava gli importasse comandare, curandosi di prendere ogni decisione in prima persona, senza badare troppo agli effetti, che considerava in ogni caso imprevedibili. Riteneva imperdonabile soltanto l’indecisione, così tentava di ridurre all’osso le libertà dei suoi concittadini per accrescere la sua sensazione di potere basata sull’illusoria sensazione offerta in termini di protezione in cambio di cieca obbedienza. Le scelte impopolari intraprese, lasciavano molto discutere in una Rio intollerante alle eccessive restrizioni. Quest’aria di rivolta da una parte, ed estrema tendenza al controllo e al dominio dal lato istituzionale, preoccupava l’attento Limbadi: speranzoso che qualcuno frenasse Saldoao dalla brama di padroneggiare la situazione, credendosi in grado di gestirla a tutto tondo. Le manie del governatore, per conservare quest’illusione, si facevano sempre più pericolose, in concomitanza con il potere che poteva esercitare e la convinzione di agire nel giusto. La scusa di ergersi a paladino della difesa della salute, lo rendeva deciso sulle sue ragioni che in realtà volevano solo soddisfare quel bisogno di controllo e voglia di supremazia. Limbadi lo inquadrava come un individuo egoista, con la tendenza al dominio per l’incapacità di una convivenza insieme agli altri. La sete di sentirsi nel giusto lo preoccupava sopra ogni cosa, dato il suo anteporsi alla possibilità di un incontro autentico, privo della necessità di auto affermarsi a discapito degli altri, nella certezza di provocare seri danni e di formare un clima disteso e felicemente vivibile. In alcune apparizioni televisive, si intravedeva anche la moglie di Saldoao. A Limbadi appariva triste e infelice, presumibilmente vittima dell’assurda gelosia e prepotenza del marito che non le consentiva di esprimersi liberamente, costretta ad assoggettarsi e incapace di ribellarsi, anche per una questione di comodità: non sapendo cosa fare senza gli agi da lui proposti.

Divagando nel flusso immaginifico dei suoi pensieri su questa donna, “il limpido” la concepiva come infondo amata da Saldoao, che ne apprezzava lo spirito materno e quell’attitudine nel porsi in maniera dolce e accogliente. In ogni errore, il sovrano si sarebbe potuto sentire sostenuto dalla presenza di quella compagna che avvertiva quasi come una martire: una santa in grado di elevarsi nonostante il suo scarso rispetto e mancata acclamazione. Nel continuo fluire delle sue idee, Limbadi ipotizzava come il sovrano non riuscisse a essere carino con lei, sia per attitudine personale, quanto per come la vedesse totalmente dipendente da lui, quindi scontata, ormai conquistata e senza la possibilità di perderla. Presumendo non si fosse mai spinta ad esprimere a suo marito una negazione, sembrava che questa donna avesse assopito ogni bisogno o desiderio, incentrata soltanto sul soddisfare quelli di Saldoao. Il signor Limbadi, se così fosse stato, riteneva lei la principale artefice di quella relazione soffocante e colma di vincoli, lontana dal puro amore che include sacrificio reciproco, slancio innato e disinteressato. Immaginandola chiusa nella sua sfarzosa casa, la visualizzava da sola, annoiata, davanti alla televisione. Qualche volta, magari, in una soap opera televisiva sudamericana, aveva sentito parlare di rispetto di sé, ascolto, comprensione, accoglimento, empatia, cura, premura, attenzione, protezione, affetto, capacità di accudire, coccolare. E ancora di pace, armonia, accettazione, generosità, compassione, supporto, sostegno. Di dare senza ricattare con il senso di colpa, senza annientare l’altro, farlo incondizionatamente senza chiedere nulla in cambio. Limbadi poteva così vederla turbata, perlomeno più espressiva che sullo schermo durante alcune apparizioni del marito. Nella sua immaginazione, la donna doveva faticare la notte per prendere sonno, girandosi continuamente sul letto senza potersi togliere dalla testa questi concetti. Da sola, senza lui che non avrebbe gradito i suoi movimenti mentre avrebbe voluto dormire. Alla fine, pensava Limbadi, che col tempo sarebbe riuscita a inghiottire tutto, escludendolo, eliminandolo dalla mente senza elaborarlo e badando bene a non affrontarlo, non volendoci rimuginare per distogliersi dal garantire spazio alla sua profonda insoddisfazione di fondo. In queste riflessioni, presagio di una possibile ispirazione per delineare il personaggio di un racconto, il signor Limbadi si rese conto di come al centro del suo pensiero si fosse istaurato questo concetto di morbidezza nei rapporti tra uomo e donna, che riteneva centralissimo e fondamentale in un quadro generale più ampio possibile. Il modo utilizzato per immedesimarsi nella moglie del governatore brasiliano, lo portò alla realtà del genere umano bisognoso degli altri nell’incoerenza di un mondo che plasmi individui egoisti. La possibilità di discostarsi dalla follia collettivizzata, in concomitanza con l’impossibilità di un bene comune universale e la tendenza narcisistica radicata in una parte della natura umana, trova riscontro nell’unione di coppia, nel “noi” appena consentito e al di fuori dalla singola unità, che può essere pieno conforto personale e forse anche possibile preludio di un nuovo inizio fondatore di una società più in linea con le attitudini meno superficiali e contrastanti degli esseri umani.

A riportare il signor Limbadi alla realtà, facendolo uscire dal circolo della sua immaginazione, fu Simone. I due, accompagnati dalla stessa sorte che li vedeva bloccati in albergo, avevano molto legato e si concedevano lunghe chiacchierate sui divani sparsi su ogni piano. Simone era in Brasile per consolidare la coraggiosa scelta che aveva compiuto. Per anni aveva trovato le maggiori gioie della sua vita di Domenica, quando abbandonava il letto soltanto a ora di pranzo. Si svegliava molto prima ma restava lì, senza far nulla, a godersi il protrarsi del tempo al caldo, finalmente senza l’obbligo di doversi alzare in un gesto tanto semplice ma visto come faticoso, al punto che gli serviva tutto il coraggio del mondo per ripeterlo continuamente. Fuori dal letto, c’era il gelo del nord America che associava al dover correre a produrre per altri. Il suo datore di lavoro, pensava sempre perché venisse chiamato così, considerando che a lui il lavoro – più di darlo – glielo prendeva. Simone produceva tanto, tantissimo. Era consapevole che il suo salario se lo guadagnasse in mezza giornata. E tutto il resto del mese? E in tutto il resto del mese arricchiva il datore, anzi appropriatore. Sentiva la sua vita sottratta dal suo tempo, dalle sue capacità, in cambio di una miseria. Evitava di esprimere queste sue idee. Sarebbe andato su tutte le furie a sentirsi rispondere: “e allora fai da solo, mettiti in proprio”. Come se lui avesse il denaro per detenere tutti i mezzi di produzione necessari. Quanto percepiva non valeva nemmeno il gelo che gli entrava nelle ossa e che tentava di rimediare in quelle lunghe mattinate domenicali a riposare, sveglio, senza far niente. Simone si sentiva ingannato anche nel tempo libero speso da consumatore che continuava ad alimentare il sistema. Vedeva i suoi colleghi come degli automi che agivano disumanamente e pensava che certi comportamenti fossero contagiosi. Temeva di poter diventare anche lui un viscido e osceno isterico, convogliato nell’ingurgitare qualunque nuova moda, consumando a dismisura, dominato dagli oggetti e dai bisogni indotti che non gli appartenevano, fino a vederli impadronirsi dei suoi già rarissimi svaghi autentici. Sentiva gli sfuggissero gli effettivi canoni di preferenza personale e trovava complicato rapportarsi con chi lo attorniava, in quanto additato da mire egoistiche per accrescere il proprio ego, nel racconto di falsità facilmente smascherabili. In un’occasione era stato mandato in trasferta lavorativa a New York, odiando visceralmente quella città tutta luminosa, trovando dietro quei luccichii delle promesse fasulle e incostanti, celanti soltanto desolazione tra quelle strade pericolosissime da percorrere di notte, per via della disperazione di una grossa fetta della popolazione. Non sopportava i pomposi capi americani, che si facevano grandi e camminavano con grosse automobili simbolo di una presunta gloria che lui vedeva misera già solo per quell’infinita voglia di ostentarla e smania che avrebbe ineluttabilmente condotto all’autodistruzione. Piaceri effimeri, provvisori e fugaci nello svanire del loro effetto non appena realizzati. Incompreso e lontano da quel mondo che avvertiva come potesse presto risucchiarlo, aveva deciso di farla finita, si era licenziato. Una scelta difficile, non condivisa da nessuno a lui vicino. Era però troppo stufo di adorare come dei feticci tante stupidate che acquistava col suo stipendio, nel disperato tentativo (da lì a breve) di svenderle pur di guadagnarci un minimo al posto di gettarle. Sentiva stesse cambiando per colpa del fascino delle finzioni, avvertendo la sensazione che gli stessero iniettando idee inutili, aspettative viziate e fatalmente pretenziose, per uno stile di vita alla lunga insostenibile. Tante volte si era sentito attratto da proposte ambientaliste, sognava un clima di unione ma vedeva le risorse naturali esser sfruttate e gli uomini cercare di sopraffarsi a vicenda. Simone avvertiva che il suo impegno gli venisse sottratto via, non possedeva il risultato del lavoro svolto e si considerava soltanto un’appendice impossibilitata a poter esprimere libera iniziativa. Il signor Limbadi lo ascoltava e capiva, sentendosi molto vicino alle sue considerazioni, trovando una grande affinità col ragazzo al quale augurava fortemente di non doversi mai pentire della scelta adottata sul cambiare vita.

Ad attirare la curiosità di Simone c’era anche Giovanni, un italiano in procinto di diventare prete. I due avevano avuto modo di conversare insieme nelle cene in hotel, con Simone che si era preso la confidenza di essere schietto e sincero nell’affermare che secondo lui le religioni fossero una sorta di calmante, un’appendice dell’economia, che depotenzia e rende governabile il popolo che accetta così la sua dimensione da subordinato attraverso questo lenitivo che funge da sedativo. Simone andava aggiungendo che ormai fosse superata la questione della fede, con ogni Dio sempre meno seguito e creduto, in favore del consumo che ne assumeva le stesse funzioni, convogliando la rabbia della gente sullo shopping, sui programmi televisivi o social network volti a legittimare la diffusa alienazione. Il signor Limbadi appoggiava Simone e non perdeva occasione per incoraggiarlo, facendogli notare come la modernità favorisse la finzione, catturata in ostentazioni e assuefazioni scaraventate ad esempio sugli sport e sulla politica, oltre che appunto sulla religione. Solo questi artifici accendevano gli animi, con la conseguenza che nessuno più si incazzava per togliere una parte di potere alle multinazionali in un mercato globale che schiavizza gli individui, o meglio degli agglomerati di persone prevedibili e gestibili. Giovanni pativa molto queste opinioni tanto ben argomentate che sembravano non aver falle. Le conosceva e ne soffriva perché lo mettevano in crisi ma anche perché, data la sua empatia, si faceva carico della sofferenza celata dietro ogni frase. Si nascondeva sempre dietro una certa spiritualità che non poteva esser capita e pertanto neanche spiegata ed espressa. Attraverso essa Giovanni giustificava tutto e riduceva i dolori avvertiti. Entrava in contatto con sé stesso al punto da temere che Dio non fosse un soggetto esterno ma il frutto della sua stessa credenza strettamente personale, avvicinandosi così al mistero della fede. Alla preghiera si affidava anche per la pandemia in corso, trovando un equilibrio personale, impossibile però da trasmettere agli altri e inteso da Simone soltanto come un auto inganno. Di quest’opinione, Simone non ne faceva però chiara menzione, per non dover far battute sulla possibilità di aver fede su qualsiasi personaggio immaginario ed evitare di ferire il prete con eccessiva franchezza, vedendo a sua volta Giovanni come una persona debole, da difendere e compatire.

Il virus sembrava aver scoperchiato le problematiche più profonde e radicate in ogni individuo, impedendo che le scuse accampate interiormente potessero continuare a reggere. I sistemi di difesa che attraverso delle menzogne ognuno si racconta per sopravvivere a dei traumi passati erano stati messi a dura prova, spingendo ognuno a un atto introspettivo. Era il caso di Dalinda. Questa bella ragazza bosniaca era solitamente distratta, incapace di concentrarsi attentamente per un prolungato periodo di tempo. La sua debole soglia dell’attenzione, la spronava ad andare alla continua ricerca del superfluo. Di ogni cosa sembrava catturare solo delle minime parti, dei brandelli. Queste piccole fette le dimenticava presto perché risuonavano nella sua testa solo come tormentoni. Delle canzoni, ricordava solo il ritornello (e spesso incompleto) senza neanche capire cosa dicessero le parole, cantandole in maniera meccanica. Ai libri, preferiva gli aforismi, quelli più brevi. Quest’incompletezza, durante la quarantena obbligatoria, le dava il tormento perché trovava meno stimoli che la facessero continuamente distrarre. Dalinda, al signor Limbadi, sembrava schiava della tecnologia. Non l’aveva mai vista senza il telefono in mano, immancabilmente quasi scarico. In un dialogo con lei, che ascoltava distratta, riuscì a restarsene zitto, facendole elaborare un concetto. Ne estrapolò come fosse una ragazza profondamente impaurita, non tanto dal virus ma della vita in generale. Aveva bisogno di protezione e sicurezza e, per ottenerle, era disposta a rinunciare a qualsiasi cosa, compresa la sua libertà (come già faceva fornendo ogni suo dato e informazione in cambio di comodità virtuali). Era una grande fautrice della Cina, di come stavano affrontando la pandemia. I metodi invasivi era pronta ad accettarli totalmente nella sua sfera privata, l’importante era che si sentisse in qualche modo protetta, dal virus come principalmente dalla minaccia di città insicure e da qualunque sorta di pericolo che percepiva. Il controllo totale e la sicurezza garantita non avrebbe mai potuto ottenerla, che la sua libertà sarebbe stata barattata quasi per nulla non lo capiva, facendo temere anche a Simone (che se ne era invaghito, per quanto fosse propenso a innamorarsi soltanto di quelle donne timide, che doveva lui spronare a non indugiare, per superare le loro dolci timidezze e lasciarsi andare per vivere senza vergogna l’amore) che si potessero creare delle pericolose derive totalitariste. La canzone preferita dalla bosniaca era un bravo italiano, dei The Zen Circus, intitolato “Ilenia”. Le piaceva così tanto questo nome che era diventato il suo nickname su Instagram (e quell’account per lei, considerando le ore che gliene dedicava, aveva davvero importanza). Dalinda ripeteva in particolare una strofa, in italiano imperfetto, che neanche si era mai preoccupata di tradurre: “Sono un po’ bestia un po’ danno  E vorrei vivere nuda  Sento il mondo con il naso  Odio avercelo tappato  Mi affeziono facilmente  Ma non ho voglia di spiegare  Che poi in realtà so anche parlare  Ma non si capisce bene  E quindi un po’ mi dispiace  Anzi non mi dispiace  Di averti conosciuto in un brutto periodo  Perché sei stato più bello  Hai brillato di più“. In qualche modo imprecisato e poco comprensibile, questo motivetto riusciva a farla entrare in contatto con sé stessa, a farle esprimere quanto concettualmente non riusciva. La potenza della musica che arriva a toccare delle corde nascoste nelle viscere, sfiorando il mistero più radicato che Dalinda desiderava nascondere anche a sé stessa ma che, allo stesso tempo, la affascinava e l’isolamento le lasciava per dei frammenti di secondo percepire, dandole modo di essere in quegli attimi una persona autentica e profonda, pur senza esprimerlo o potendolo sublimare in qualche maniera evidente.

Dalinda incuteva gioia e stava antipatica a Matilde. La sua esuberanza, la musica che riproduceva in camera ad alto volume, disturbando i vicini di stanza, non era tollerata da chi – a prima vista – potesse sembrare predisposta, per via dell’età, a legare maggiormente con lei. Superficialmente si poteva pensare le invidiasse la maggior bellezza, e in parte non è da escludere. Dalinda a volte ballava anche nei corridoi, coi suoi capelli lisci e biondi lasciati a ondeggiare, provocando un effetto talmente bello che neanche le onde del mare di Rio avrebbero potuto competere. Matilde in realtà avrebbe voluto avere la sua stessa vitalità e l’alterava il pensiero di non potersi continuare a godere il carnevale carioca. Si era convinta che il virus non esistesse, ne negava gli effetti non percependo alcun pericolo fuori dall’albergo. Arrivava a odiare chi tentava di farle cambiare idea, considerando il dialogo non come un confronto quanto un rimprovero, entrando subito in competizione con tutti. Le sfide che si creava da sola, ardeva assolutamente per vincerle nonostante per nessuno si fosse venuta a creare una sorta di lotta. Alzava così il tono della voce, si irrigidiva, diventava ingestibile, astiosa e insopportabile. Non era neanche più tanto in età infantile che si potesse pensare a un problema di scarsa maturità, per quanto essa non sia strettamente correlata all’anagrafe. Evidentemente, esasperava gli inevitabili fastidi presenti nella sua vita, evocanti incertezza, impossibilità di controllo e prospettiva sicura. Per sopperire a queste mancanze, in maniera innaturale e senza colpe, tentava di distrarsi per evitare di restare compressa nel peso che la angustiava, perdendo però tragicamente di vista le priorità che rischiava di compromettere. Dalinda non la capiva. Matilde le parlava di libertà, di lasciarla in pace e non coinvolgerla nella sua esuberanza perché voleva starsene da sola. La bosniaca cercava di farsi spiegare da Simone il motivo per il quale quella ragazza fosse così chiusa, ricevendo in risposta che era forse influenzata dalla società dalla quale proveniva, volta al tornaconto personale; avendo notato come Matilde potesse essere a convenienza qualora ne intravedesse il bisogno, cambiando completamente atteggiamento, mostrandosi affabile e cordiale. Dalinda intuiva come, senza dover dare spiegazioni a nessuno, Matilde si sentisse forte perché le sue scelte non potevano essere criticate e lei si sarebbe sentita legittimata a ritenersi dalla parte del giusto e della ragione. Dalinda la vedeva come un’analisi superficiale e non riusciva a darsi pace, convinta del suo concetto di libertà: dettato dallo stare insieme agli altri. Desiderava includere Matilde con intenzioni bonarie, per farla sentire più completa, coinvolta e anche in grado di potersi confrontare con sé stessa con più elementi, riconoscendosi attraverso un’attività partecipativa. Questo atteggiamento, su Matilde, creava un effetto devastante, facendola irrigidire, indemoniare, avvertendo come le volessero fare della beneficienza della quale non aveva alcun bisogno e avvertiva come un’umiliazione. La scozzese non capiva quando qualcuno le si volesse in qualche modo donare e lo odiava perché lei non era mai stata pienamente in grado di prendersi effettivamente cura delle persone care, per quanto lo esprimesse nelle intenzioni. La sua libertà sapeva quanto fosse fittizia, improntata soltanto sui propri interessi, su meschinità volte al sopraffare il prossimo per ignorare un bene comune, in favore del proprio, come dell’immagine fornita. Finendo col non piacere a sé stessa per le sue stesse mire, confusa e spronata soltanto a evadere.

Il signor Limbadi aveva preso a cuore Matilde, scrutandone un potenziale emotivo che voleva vedere in lei e non poteva di certo escludere. Questa ragazza lo affascinava e, al suo solito, tendeva a volerla come aiutare e consigliare a fin di bene. Rinfrancato dalle conversazioni con Simone, la riteneva una delle tante vittime del sistema capitalista, alienata e per questo in difficoltà a lasciar maturare quella propensione amorevole che l’avrebbe fatta vivere meglio. Il consiglio del “limpido” alla scozzese era quello di imparare a rimanere, a resistere, quando creato qualcosa di solido, importante e sentito, si sarebbero venuti a creare degli ostacoli. Matilde si sentiva in qualche modo difesa e protetta da quest’uomo, ne intravedeva le ragioni che però non finiva col cogliere pienamente fino a interiorizzarle, rimanendo sulla difensiva. Nella sua testa, quei discorsi sulle false illusioni promesse dalla società contemporanea, in termini di progresso che si disvelava come regresso, suonavano molto intriganti e attraenti. Stimava chi avesse un pensiero tanto convincente ed era ben in grado di esporlo, come chi mostrava una certa sensibilità e tentava di scrutarla, avvicinandosi alle sue fragilità. Allo stesso tempo però li invidiava ed era pronta ad accusare l’interlocutore di essere un odioso saccente, per non sentirsi così da meno ed evitare di parlare di lei. Faticava pertanto a imparare e prendere qualcosa di buono dagli altri e la infastidiva dover ascoltare come la deriva dell’umanità potesse essere la frammentazione tra le persone, che non riescono a porsi degli orizzonti comuni, assoggettandosi a un’esistenza frenetica, a ritmi serrati, che in tale rapidità sfavoriscono il ragionamento. Matilde si sentiva logorata esattamente da queste dinamiche e pertanto faceva di tutto per evitarle, da qui nascevano le sue sfuriate e l’assenza di un vero significato dietro le sue azioni. Rendersi conto di essere schiava del profitto di altri (anche in ambito lavorativo) e condannata a un consumo spasmodico per non pensarci, le faceva capire come non avesse nulla da poter davvero insegnare ai più giovani, come desiderava fare ad esempio con suo nipote che, come lei e tanti altri, gli sembrava un suddito della tecnologia, in grado di ripetere solo luoghi comuni inutili e banali. In quanto Limbadi le descriveva come falso, lei aveva posto la sua vita e infondo lo poteva anche trovare gradevole perché piuttosto confortevole. Questo era chiaro anche al signor Limbadi che tentava però di farla andare oltre, lasciandola accorgere di come restasse celata una dirompente tristezza che la illudesse di poter continuamente ricevere e pretendere, senza desiderare di dare. Continuava asserendo che la più alta forma di autorealizzazione esistesse nel condividere e, se fuori tutto è falso, intanto deve nascere da dentro sé stessi, nella solitudine che non viene soppiantata dalla socialità online della quantità, quanto soltanto nella ricerca del vero, dalla curiosità, dalla brama di creare, fantasticare, immaginare e generare che, in lei, Limbadi aveva ben visto fino a sentirsene trasmettere una buona dose aggiuntiva, anche in quelle poche interazioni avute tra i due. Matilde si sentiva lusingata ma a riconoscere il falso faticava e, per quanto potesse riuscirci, non era disposta ad accettarlo. Era come troppo inglobata in certi schemi, che come si fa per una merce ormai abbondantemente utilizzata, si preferisce buttare e sostituire con una nuova, piuttosto che tentare di ripararla e farla funzionare, anche per l’affetto che se ne possa istaurare. Questa tendenza la andava a ripetere con le persone, lontana da quel concetto di resistenza nel quale voleva farla confluire il signor Limbadi. La affascinava potersi sentire consapevole dei sacrifici svolti con una determinata persona, del piacere che comportasse la forza di superare momenti difficili per poi ritrovarsi sempre vicini e legati. Questa propensione però non le apparteneva, voleva essere più “moderna” e inglobata nelle dinamiche sociali dei suoi tempi, confluendo nel vivere nella fugacità, disimpegnata e volta ad andar via, piuttosto che a rimanere. Cercava stimoli distraenti, seppure allo stesso tempo invidiava le persone come il signor Limbadi, dotate della pazienza e la capacità di godersi lucidamente e consapevolmente ogni attimo, riuscendo ad assaporarlo con semplicità. Le ferite del passato non si rimarginavano, irrisolte continuavano a bruciare e si finiva col rimpiangere, nei momenti di chiarezza, come in sogno, quei momenti avvolgenti dove si era amato e sentiti amati. Matilde aveva capito che Limbadi si augurasse per lei una profonda unione, piuttosto che una mescolanza casuale, con un uomo che le avrebbe sempre lasciato il segno, intriso la difesa delle loro magnificenze insostituibili (che le sarebbero visceralmente mancate) e si esprimesse con lei con l’anima, ovvero lontano dalla deriva narcisistica, che le scattava quando si faceva prepotente, capricciosa e reazionaria senza considerare più per primi i sentimenti provenienti dal cuore, preferendogli scioccamente gli approvvigionamenti per il suo ego: il vero male dell’umanità, il fulcro di ogni ostilità, il vero grande virus da debellare.

Il signor Limbadi pensava che nessuno al mondo avesse delle vere e proprie colpe. Il centro di tutto considerava fosse poter stare bene con sé stessi. La mancanza di quest’essenzialità, poteva derivare da diversi fattori che avrebbero reso difficoltoso lo sviluppo della capacità di accogliere in sé, amando e lasciandosi amare come nella sua concezione avevano avuto un ruolo determinate le letture di Fromm e Frankl. Sull’argomento, il “limpido” si intrattenne una sera con Philip. Quest’uomo inglese, tifoso del City e cittadino di Manchester, sosteneva addirittura si potesse amare soltanto una volta, che coincideva con la prima effettivamente vissuta, tutto il resto non sarebbe stato che un maldestro tentativo di imitazione. La spontaneità del vivere quei sentimenti non poteva andare sostituita, a suo dire. Philip era un uomo molto creativo, pieno di inventiva. Considerava la vita di tutti meramente qualcosa che accade, svalutava i tentativi di identificazione e dava risalto soltanto all’interpretazione delle varie situazioni, nella capacità di attribuirgliene i migliori significati. Riusciva sempre a trovare il lato positivo di ogni avvenimento che, per quanto concerne il virus, aveva individuato nel tempo che poteva trascorrere vicino alla sua famiglia. Philip era provvisto di un carattere mite, che non lo faceva adirare per le limitazioni che stava subendo. Avrebbe voluto continuare a girare per Rio, non era certo arrivato in Brasile per stare chiuso in albergo. Pensava però a godersi i figli, come forse non avrebbe potuto fare vagando continuamente per quella metropoli che aveva visto tanto caotica, seppur variopinta. Lo consolava il poter essere lontano da una città grigia e tanto piovosa, quale la sua Manchester, e anche solo affacciarsi alla finestra lo rendeva più gioioso. Gli sembrava sempre giorno e cercava continuamente un modo per stupire sua moglie (come lei faceva con lui), senza dare per scontati i suoi affetti. In Matilde aveva visto qualcosa della sua prima fidanzata. Ricordava tutti i momenti felici e riservava un posto nel suo cuore per lei, il suo primo amore, seppur lontano e intrapreso nuovamente con una compagna pressoché perfetta con la quale, senza forzature o sforzi, riusciva a formare sensi esprimendosi in maniera del tutto trasparente e naturale. Philip voleva però riscattare quel primo e intenso amore e riuscire laddove non aveva completato l’opera con quella ragazza di cui aveva perso le tracce, anche se non aveva mai smesso di pensarla, convinto che anche lei facesse lo stesso. Matilde era la sua occasione, lei però si innervosiva già al primo accenno delle frasi perfette, coerenti e razionali di Philip. Il suo approccio gli sembrava del tutto gratuito e non richiesto. Capiva avesse ragione e questo la faceva imbestialire perché scoperchiava tutti i suoi difetti che avrebbe voluto tenere nascosti, mostrando solo la parte più bella di lei. La loro sembrava una lotta per affermarsi. Da una parte Philip, che se avesse avuto la meglio, pervadendo Matilde e trasmettendole la sua stessa tranquillità, avrebbe avuto la conferma del suo modo di essere come dominante e vincente a livello universale. Avvalorarsi di questo successo, avrebbe consolidato ulteriormente un uomo molto sicuro e saggio, che sicuramente sapeva quello che voleva e, una volta conquistato, non faceva altro che difenderlo, godendoselo in ogni istante. Dall’altra parte c’era chi però non voleva essere “salvata”, preferiva lasciarsi trascinare dalla corrente, in balia di sé stessa, pur di non far emergere quanto di “oscuro” infondo sapeva di nascondere e non avrebbe permesso di far uscire da sotto il tappeto. Matilde, confermando le impressioni di Dalinda, amava così isolarsi quando le si chiedeva troppo approfonditamente di aprirsi. Restando da sola, nel suo orticello privato, sapeva come sentirsi più forte e sicura. Philip non poteva fornirle quell’aiuto che desiderava, rivedendo una lotta già affrontata che non gli consentiva di togliersi la soddisfazione di trasmettere come unirsi completamente perché stupidamente sbarrato da un muro eretto dal non volersi sentire la parte debole, giudicata e bisognosa. Da un lato Philip si sentì quasi sollevato, ricordandosi dei tormentati momenti lontani che gli si generavano con quella ragazza che aveva tanto amato, dall’altra era dispiaciuto perché riconosceva come in tutto quel trambusto vi fosse qualcosa di unico, inimitabile e talmente potente che andava possibilmente affrontato come in una nave in piena tempesta che continua ad avanzare imperterrita dinanzi al mare in burrasca.

Matilde fuggì dall’interesse – quasi paterno – di Philip, buttandosi nel tentativo di conquistare Bernard, uno psicologo che aveva preso molto a cuore il problema della pandemia e mirava ad aiutare gli altri restando ad ascoltarli, nella speranza di non fargli patire troppo la situazione nella quale erano finiti. Bernard era convinto si stesse sottovalutando la portata dell’evento, come pensava già da tempo si stesse trascurando il mal di vivere che attanagliava le persone di tutto il mondo. Era certo che l’uomo si fosse troppo complicato la vita sul pianeta, diventando schiavo della tecnologia, anziché esser furbo da sfruttarla per il suo benessere, da intendersi ovviamente come collettivo. Gli interessi dei pochi, finivano col rovinare i molti. Portava spesso l’esempio dell’automazione, che migliorava certi aspetti lavorativi ma solo al fine del profitto dei più potenti che li sfruttavano facendo perdere il lavoro a tanti che non erano in grado di reinventarsi in un mondo dove le competenze diventano sempre più complesse e complicate. Matilde era molto affascinata dallo psicologo dai modi molto dolci e un carattere mite. Iniziò così ad assillarlo, riempiendolo di attenzioni. Un vero bombardamento d’affetto che fece breccia nel cuore di quest’uomo single che aveva tanto da dare, potendo realizzare l’interesse di Matilde di sentirsi ben voluta e amata. Bernard la faceva sentire importante, con i suoi pensieri e gesti carini, volti anche a tollerare qualche comportamento scorbutico di lei. Lo psicologo la giustificava addicendo allo stress affrontato da una situazione sicuramente inusuale, avvalorata dal trovarsi in terra straniera. Tra i due durò poco, con Bernard che capì come la presenza di quella donna nella sua vita potesse rivelarsi tossica, in considerazione dell’insistente pensiero rivolto nei suoi riguardi, verso il quale lei si rispecchiava continuamente, disinteressandosi di poter dar effettivamente qualcosa, rimanendo per natura concentrata su quanto potesse trasmettere all’esterno di transitorio, curiosa dell’opinione suscitata, con la voglia che fosse sempre incredibilmente positiva. Bernard tentò un approccio semi professionale nei confronti di questi atteggiamenti che aveva potuto osservare da vicino, innescando delle ire che non riuscì a sopportare, rendendosi conto di quanto non potesse intervenire laddove non era richiesto alcun aiuto e si sarebbero reiterati dei comportamenti a lui non affini. L’unica vera e grande ambizione di Bernard era poter aver figli, ai quali insegnare l’unica cosa che secondo lui contasse: l’amore. Nello specifico, pensava servisse educarli lasciandoli liberi per facilitare le loro capacità di immaginazione, atte al trasformare la realtà in sogno. Per trasmettere questa sorta di magia, sapeva di aver bisogno di una donna con la quale istaurare un rapporto che volgesse da esempio. Con Matilde, a volte riusciva a trovare talmente tanta dolcezza da potersi rivolgere a ogni cosa con passione, in altri frangenti questo coinvolgimento però scompariva, soppiantato da campanelli d’allarme che gli lasciavano la sensazione di non poter generare quel clima sperato, fatto di dialogo continuo e radicato, nel quale poter far crescere un bambino.

Negli ultimi giorni di reclusione in albergo, prima che si allentassero le misure prese per contenere la pandemia e venisse sospesa la zona rossa a Rio de Janeiro, Bernard familiarizzò con Esmualdo, tentando di includere pure Demon con cui aveva stretto amicizia. Lo psicologo aveva ascoltato Demon confidargli delle sue tante storie d’amore, dalle quali si era allontanato lui per primo. Per scherzo, Bernard lo chiamava il “distruttore” e temeva che Esmualdo potesse scoprire il suo metodo di evasione dall’Hotel, che nel tempo aveva attuato quasi giornalmente per uscire e andarsene anche soltanto in spiaggia a fare una passeggiata di nascosto, per poi rientrare senza farsi vedere, se non da Bernard a cui lo aveva confidato chiedendogli di tenere il segreto. Demon aveva la necessità di placare il suo senso di irrequietezza, al punto che anche quando rimaneva in albergo era solito giocare da solo, contro un muro, a tennis. Colpiva la palla con rabbia, non lasciando riposare nessuno. Quel che odiava maggiormente era rispettare le regole, piegarsi al volere di qualcun altro. Per quanto fosse odioso, infondo tutti lo tolleravano e gli volevano bene. Compresi Marcos ed Esmualdo che gli somigliavano e generalmente cercavano persone differenti. Demon era molto umano, aveva paura di isolarsi. Necessitava degli altri e provava a far restare tutte le persone vicine, per quanto il distanziamento sociale fosse consigliato, per evitare la proliferazione del virus. Ripeteva che avrebbe preferito ammalarsi, ma anche morire, restando al fianco degli altri, in compagnia, che vivere separato, senza potersi confrontare e mischiare con altre individualità. Si divertiva ad accusare Dalinda di essere una conformista, che criticava alcune mode soltanto per sentirsi alternativa, uniformandosi a sua volta a una tendenza diffusa. Il suo obiettivo era creare un trasporto emotivo con quella bella bosniaca, provando a prenderla in giro per avvicinarla e dar sfogo alla sua attrazione fisica. Non riuscì ad annoverare anche Dalinda tra le sue conquiste, per via dell’idea che lei si era fatta di lui, come di Esmualdo. Li vedeva come degli egoisti con manie di grandezza che non avrebbero mai volato troppo in alto. Demon era per lei un attore e, risentita da quanto le dicesse in quanto permalosa, gli rispondeva seriamente chiedendogli quali fossero invece i suoi sogni che non provenissero da copie di altri sognatori. Si era fatta suggerire questa risposta da Simone, che l’ultimo giorno di “reclusione” in albergo, insieme a Limbadi, preparò un discorso per salutare quei compagni di quarantena, i quali si erano ormai reciprocamente affezionati tra di loro.

“Noi crediamo che il mondo ci ami, che la natura abbia a cuore l’intera umanità. A volte pensiamo il contrario ma non ci rendiamo conto quanto possiamo essere urtanti, dar fastidio al pianeta che ci ospita e che il suo ribellarsi sia sempre a fin di bene, indirizzato a limitare i gravi errori e danni che noi uomini commettiamo al suo interno”. In questo modo esordì Simone, lasciando spazio a Limbadi per il proseguo, dopo aver attirato l’attenzione di tutti. “Noi uomini non vogliamo approfondire, non interpretiamo i segnali, se non svogliatamente. Il mondo è stanco del nostro menefreghismo, della nostra prepotenza nel tentativo di sovrastarlo. Siamo interconnessi tra noi, come con lui. Lo vedete come si protrae il contagio? Non ve ne frega nulla di quanto avviene lontano da casa vostra? Ci vuole poco a notare come chi inizialmente trasmetta il virus in una lontana zona tanto snobbata da noi, nel giro di pochi contagi, entri nella nostra abitazione tramite una persona cara! Non possiamo star bene senza gli altri, se non lo sono anche loro e se tutti insieme non ci curiamo del pianeta. Se guardassimo bene, noteremmo come ci lasci sfogare ma potrebbe annientarci in qualunque momento, preferisce farsi male ma saprebbe come reagire e spazzarci via tutti. Noi siamo esseri fragili e il mondo prova a tutelarci, a renderci felici, a proteggerci e prendersi cura di noi, tenendoci al sicuro in casa sua. A volte però esplode, si infervora e deve necessariamente scoppiare, non può consentirci continuamente di calpestarlo. Il mondo prova a esaudire ogni nostro capriccio, conosce l’individualismo che ci caratterizza e lo accetta anche quando non gli piace. Si rende conto di quanto siamo incontentabili ma continua a porci ascolto, a volerci ospitare fedelmente e con sentimento. Vorrebbe soltanto riconosciuto il significato che attribuisce a tutti i suoi sforzi ma in ogni caso continuerà ad accontentarsi degli attimi d’amore che l’umanità certe volte dimostra, anche se in maniera sfuggente e col passare del tempo sempre meno avvolgente e conscia del presente. Il nostro debito verso il pianeta è impagabile, non siamo capaci di prendercene cura, lui così continua a risplendere ma di luce propria, la quale al massimo incentiviamo con le nostre continue e assillanti pretese cieche. I gridi di attenzione, riconoscenza, rispetto e fiducia, li ignoriamo, anzi ci infastidiscono. Finiamo con l’approfittarci del mondo, costringendolo a sottostare ai nostri giochi, anziché formare con lui un orizzonte comune. Siamo semplicemente stupidi! Ci basterebbe accettare la verità, capire le priorità, per vivere con spensieratezza, emozione e trasporto nel divenire con il cuore pieno e impegnato. Il mondo ci urla di restare uniti, ci rimane vicino, ci accoglie, ci capisce. Avvertiamo la sua lungimiranza, la dovremmo solo seguire. Il suo timore più grande, sono certo sarebbe quello di vederci sbandare nonostante il suo amore, per rendergli impossibile tenerci saldi intorno al suo avvolgente abbraccio, col rischio di doverci rifiutare se dovessimo rovinare tutto per poi tornare troppo tardi da lui finalmente consci. Gli errori si pagano, hanno un prezzo, la comprensione deve arrivare prima della compromissione. Dovremmo essere inermi con lui, farci accudire nel suo habitat che favorisce la nostra vita e libera espressione, scarna di ingerenze esterne e inclini alla radice che manifestiamo quando sembriamo tornare bambini. L’umanità è infinitamente difesa, considerata speciale ed è assurdo che debba crearsi finzioni, sotterfugi, nascondigli e distrazioni nei confronti di chi ha tutto da darle. Dovremmo smetterla di trascurare chi è in noi, continuamente sarà fonte di gioia perché ne siamo interdipendenti. Il mondo non può stare senza di noi, non avrebbe brio, ma neanche noi possiamo fare a meno di lui per quanto amore ci dona. Il modo in cui lo miglioriamo (perché in questo vi riusciamo) è dettato dalla sua individuale capacità di mutare per soddisfare le nostre aggiuntive pretese. Potremmo farlo arrivare ai cambiamenti con più dolcezza, meno irriverenza, forse ci vorrebbe di più ma lui sarebbe più felice e lo merita davvero. Dobbiamo stare attenti al futuro, non è difficile essere lungimiranti, è palese che senza di lui saremmo persi, ci penseremmo sempre senza trovare alcun miglioramento. Nessun altro habitat potrebbe amarci così tanto e risultare più affine per la nostra vita! Ognuno di noi non può ignorare il richiamo allo smettere di aver paura di esser contraddetto, di non specchiarsi interiormente per bramare potere e indursi a spogliarsi, dilaniarsi, lasciarsi vedere come un miserabile quale chiunque è per natura. Il mondo ha capito che non può più essere comprensivo con noi, che non capiremo mai, reiterando sempre gli stessi errori e comportamenti”.

Matilde si sentiva tanto parte dell’umanità, in questa descrizione. Philip piangeva, lui forse si sentiva come il mondo. A sua moglie, che tentò di sincerarsi delle sue condizioni emotive, rispose che temeva come il mondo avesse ormai deciso di andarsene, che non c’era nulla da fare con gli umani. La moglie aggiunse che forse aveva ragione, il mondo ci amerà sempre, ci terrà a cuore, spererà che sopravvivremo pur pensando che non sarà così. Lui è pronto a ospitare una nuova specie, si rigenererà più bello che mai. Gli mancherà l’uomo, lo ricorderà con profondo affetto e nessuno mai lo sostituirà pienamente per via di quelle prime e forti sensazione provate. Il mondo però continuerà a vivere, lasciandosi alle spalle l’umanità per quanto gli sia più affine, comprensivo e capace di ricambiarlo e sostenerlo. Philip guardò la moglie e l’abbracciò fortissimo, si sentiva capito, aveva il dubbio se anche lei stesse parlando unicamente di loro due, del loro rapporto d’amore oppure se era riuscita rocambolescamente a trovare le parole giuste pensando a quel discorso astratto di Simone e Limbadi. In quel preciso momento, quell’intesa mentale che aveva superato ogni limite, gli fece render conto che si poteva evidentemente amare anche una seconda volta. Trovò così la forza, tra l’emozione, per rispondere che il mondo sarà col tempo capace anche di apprezzare la nuova specie come e forse anche più di quanto fatto con gli esseri umani, verso i quali avrà sempre un debole ma anche un ricordo veritiero.

Quell’albergo, da prigione, si era tramutato in paradiso. Ognuno aveva avuto modo di conoscersi più a fondo, grazie alle relazioni con gli altri coi quali era rimasto bloccato. Tra tutti loro si era creata una forte complicità, che si sarebbero portati dentro per il resto delle loro vite. Fuori dall’albergo, i brasiliani erano tornati a popolare le strade, come le spiagge. La voglia di libertà era evidente nei bambini vogliosi di divertirsi, giocare, dar sfogo al loro estro, rincorrendosi e calciando un pallone. Nessuno a Rio sarebbe stato più disposto a rivivere un nuovo lockdown e questo lo intuì anche il governatore, costretto a tornare sui suoi passi e a migliorarsi come individuo, cambiando politiche, accettando il rischio, parlando col cuore al suo popolo di quanto potesse esser bello l’imprevisto. Un inno al loro spirito carioca, contornato da sensazioni vere, pure, autentiche. Per vivere in società, dei paletti sono necessari ma turisti e cittadini di Rio avevano imparato come non fossero disposti a rinunciare più di tanto alla loro libertà, in cambio di controllo e illusione di sicurezza.

Negli anni a venire, il Brasile diventò esempio virtuoso da seguire per la salvaguardia e sostenibilità del pianeta. Col sorriso, tutti coloro che avevano ascoltato Simone e il Signor Limbadi, li consideravano i precursori di questo successo. Si erano rivelati lungimiranti e avevano preparato al meglio i loro cuori al cambiamento. Il mondo ringraziava il Sud America, premiando il suo stile di vita donandogli un clima mite, con caldo prolungato e accettabile, senza violenti temporali sporadici, evitando il rischio di desertificazione, aridità e scomparsa del verde. Lo stesso dolce destino sorrise alla penisola iberica e al meridione d’Italia, dato pochi anni prima a rischio di sprofondare nelle acque, col pianeta intenzionato a riprendersi la terra attraverso il mare. Questi cambiamenti improvvisi furono molto strani, come se effettivamente il mondo avesse coscienza, decidendo di ribellarsi contro quelle zone con abitudini folli, di estremizzazione occidentale, come anche alcune parti del continente asiatico sulla stessa scia capitalistica americana, quali gli Emirati Arabi, Singapore e la Corea del sud, con la loro tendenza a volersi prendere il ruolo di Dio, creando dove non fosse possibile strutture del tutto innaturali, facendo dell’artificio un marchio di fabbrica, potenza e prepotenza, forti del denaro e dello sfruttamento dei deboli per i loro fini sfarzosi, che stupidamente andavano ad affascinare anche coloro che vi si recavano per stordirsi attraverso quanto gli occhi potessero vedere, dimenticando quanto il cuore potesse sentire. Gli esseri umani vennero in qualche modo premiati, col mondo che andò a dimostrare come apprezzasse l’umanità ancora pressante in quei luoghi colmi di cultura, dove restasse qualcosa dentro, fino ad avvertirne uno smisurato senso di nostalgia. Quella “saudade” (la cui scritta si tatuò Matilde, abile nel conservare il passato per vivere il presente senza la pressione del futuro) riuscì, lasciandola guardare dentro di sé, a far continuare alla scozzese la sua vita senza più cedere all’egemonia del suo ego, affrontando tutto col suo animo nobile e strabiliante, capace di coinvolgere ed emozionare chiunque intorno a lei.

I successi dal punto di vista lavorativo, condussero Matilde a grandi scoperte in ambito scientifico per la cura di gravi malattie. La sua serenità a livello individuale, l’attrarre persone per sapersele finalmente tenere, proiettandosi nel darsi completamente a loro, distante da un approccio mercificante, narcisista e alienante, l’aveva spronata a restare anche più vigile sul lavoro, con conseguenti risultati brillanti, ottenuti peraltro nei piccoli laboratori di provincia dalla sua casa in campagna, lontana da Glasgow, come dal resto del mondo, considerato più produttivo e con maggiori stimoli, risorse e possibilità di slancio. Matilde, entrando in contatto con la sua interiorità, riuscì ad accorgersi dell’eccezionalità del momento presente, amando ogni semplicità. Le azioni, che provocavano una reazione, non erano scontate e anche la più banale divenne apprezzabile per questa ragazza che si rivolgeva alla vita lentamente, con dolcezza, pronta a trarne ogni frutto. Il suo era diventato un mondo fatato, ideato a partire da una sera in particolare dentro una vasca, mentre fuori nevicava. Anche quando non in grado di far caso al piacere intrinseco in ogni sfumatura, per la capacità di lasciarsene assorbire (fino al non poterci pensare) otteneva lo stesso risultato che le donava consapevolezza e pace. La ricchezza raggiunta grazie alle sue scoperte in campo scientifico, indusse Matilde (che arrotondava producendo dei fumetti magnifici) a investire a Rio de Janeiro, la città che l’aveva cambiata e laddove vigevano tra le migliori condizioni di vita dal punto di vista più importante naturalistico e meteorologico. Essersi sentita l’umanità, in quel discorso sul mondo, l’aveva profondamente turbata e in seguito consentito di rafforzarsi. Il mondo l’aveva amata e lei voleva tornare da lui. Sapeva potesse essere troppo tardi, il tempo chiarisce tutto ma quanto ci si impiega può rivelarsi fatale. Restare, resistere e difendere è la più grande forza che consente di avanzare sentendo più nitidi i sentimenti, pertanto ricucire un qualche inevitabile errore non è sempre possibile. Matilde era arrivata alla sua verità, in sintonia tra cuore e mente, e di per sé questa consapevolezza la rendeva straordinariamente felice, viva e in grado di affrontare la vita nella miglior misura. Traeva piacere nello stare con sé stessa, sapendosi rapportare con amore a ogni vicenda. Aldilà di chiusure che non poneva più, era profondamente libera, coraggiosa, avvezza a novità. Non idealizzava e non innalzava a monumenti concetti come tradizioni e altre astrattezze, ritrovandosi nella posizione di esser capace di poter offrire il massimo sia emotivamente che a livello pratico. Matilde ormai sapeva come seguire il suo cuore e permanere nella scelta. Ogni risorsa e strumento era ormai nelle sue corde per fare la sua parte con indipendenza e voglia di profonda unione. Sprigionava quotidianamente energia e passionalità, tenendo saldo il ricordo del mondo e di tutte le persone che nel corso della sua vita si fossero comportate in quel modo con lei. Aveva voglia di riabbracciarle, di poter regalar loro dei momenti di gioia, ponendosi disinteressatamente, come mai potesse essergli accaduto. Custodiva forte in cuor suo ogni buona azione ricevuta, con la determinazione di crearne molte altre. La lezione più grande che aveva imparato era riuscire a scacciare l’alieno che aveva dentro di sé. Lo chiamava così e lo riconosceva dentro qualunque essere umano, con chi in grado di dargliene più o meno spazio. Tenerlo a bada, non farlo comandare, significava porsi con delicatezza, ragionando e agendo con l’anima senza esser preda di facili nervosismi dettati da orgoglio e presunzione. Matilde aveva imparato a chiedere scusa, a riconoscere i suoi errori e limiti, traendone grande forza e conservando allo stesso tempo il suo bisogno di dolcezza e desiderio di attutire la fragilità ponendosi con tanto amore. Organizzò così una rimpatriata che in passato avrebbe odiato, rifiutandone ogni invito se proposta da altri. Stavolta si sentiva disponibile e felice di confrontarsi, dedita al far risplendere le amicizie senza invidie o facili critiche. Il suo farsi voler bene, aveva adesso tutt’altro gusto, si riferiva semplicemente a regalarsi e regalare reciprocamente momenti di gioia. Ci teneva, ne era intimamente grata e nessuno avrebbe potuto ricevere visite più disinteressate e assorte nell’affetto e comprensione, di quelle che era in grado di poter offrire lei. A partire da Philip e Bernard, contattò tutte le persone di cui aveva conservato un recapito, tra coloro i quali aveva condiviso il lockdown in quell’albergo a pochi passi dal lungomare di Copacabana.

Rispose assente soltanto il Signor Limbadi. Simone, comunicò a tutti che era morto e ne portò con sé i suoi libri, che aveva ricevuto per posta. Le poche copie erano in possesso della famiglia Limbadi e di alcuni cari amici intimi, coi quali aveva desiderato condividerli, chiedendo loro di tramandarli da generazione in generazione, tra persone vicine, disinteressato alla ribalta di un pubblico più vasto. Simone duplicò quei testi che – con le medesime prerogative – diede a ognuno presente a quel raduno, certo che il signor Limbadi avrebbe gradito l’estensione delle sue idee a quella gente che aveva voluto bene, entrando in confidenza e intimità emotiva con loro. Simone, dal canto suo, aveva continuato a portare avanti la sua scelta di tenersi distante da quel lavoro alienante che aveva avuto il coraggio di abbandonare. Era riuscito a non pentirsene, vivendo una vita a ritmi più lenti, felice di potersi godere ogni attimo, una volta trasferitosi alle Isole Azzorre e aperto un Home Restaurant, insieme alla sua donna con la quale condivideva quello stile di vita: liberi da desideri proiettati al futuro e immersi nella felicità interpretabile in ogni ora vissuta insieme, anche quando in luoghi diversi. A lei spesso parlava del Signor Limbadi, ripetendo allo sfinimento quanto fosse stato un incentivo per lui nel continuare a perseguire la sua decisione, una volta che l’input fosse partito dal cuore, come lui stesso faceva con i suoi scritti, che tanto lo appassionavano, lasciandogli condurre una vita improntata sul resistere a ogni avversità continuando sulla strada tracciata, che aveva in un primo momento sentito la più affine al suo modo di essere.

All’incontro, Demon corse subito ad abbracciare Bernard, raccontando lui che non era più un distruttore e che lo era stato per capire che poteva, dalle macerie, farsi edificatore. Si era sposato con una ragazza incontrata al circolo del tennis, dove aveva iniziato a recarsi sempre più regolarmente, riprendendo una passione del passato che era tornato a coltivare in Brasile, pur giocando da solo contro il muro. Lei, senza chiusure mentali, insicurezze o inabilità, gli consentiva di stare allegramente insieme agli altri e gli aveva fatto trovare l’amore. Con la moglie scoprì – attraverso la dolcezza di lei che amava principalmente riempirlo di baci – come il sentimento nato con calma e purezza, riuscisse a regalargli anche orgasmi più intensi, che non aveva mai sperimentato con le sue conquiste precedenti, di donne magari stupende ma interiormente meno piene di sentimento della sua amata tennista, con la quale davano adito a partite sempre molto equilibrate, come se i loro incroci fossero perfetti e sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Bernard si compiacque per l’amico e ancor più per quanto le trasmetteva adesso Matilde. Non c’era in lui gelosia o voglia di riconquistarla, quanto pura soddisfazione, come se si fosse realizzata sua figlia. Era profondamente felice e orgoglioso di lei. La vedeva raggiante, finalmente inclusiva anziché scontrosa. Lei gli aveva riferito che si era stretta intorno alle emozioni passate che l’avevano fatta sentire effettivamente innamorata. Si rendeva conto di aver perso di vista questa via, concentrandosi da quel momento a dedicarsi a tutto con passione ed entusiasmo, preferendolo al sentirsi piuttosto amata. Il suo errore credeva fosse stato aver trascurato le scelte operate con tutto il cuore, senza saperle correggere lungo il percorso, lasciando subentrare quanto ormai era brava a tenere ben lontano. Vi era riuscita ricordandosi come in qualche occasione – spinta da tanto amore – avesse compiuto passi enormi per i quali ci sarebbe stato più da faticare ma che voleva immediatamente raggiungere. Bernard aveva gli occhi lucidi, ascoltarla lo aveva emozionato e compiaciuto a dismisura, credeva che se esistesse una persona ormai incapace di mentire, fosse diventata Matilde. Pure lui era onesto e restio nel proclamare bugie ma specialmente lontano da un approccio dettato dal tutto e subito bramoso di possesso, trovandosi soddisfatto a livello personale per l’aiuto fornito ai suoi pazienti susseguitisi nel corso del tempo e la conferma della sua idea – tante volte ripetuta a Matilde – di dover imparare a spingersi cartesianamente in avanti attraverso la razionalità che c’è al principio di quando si imbocca un determinato sentiero. Lui si era comportato in questa maniera in ogni ambito della sua vita e trovarne conferma da chi rimaneva il suo tormento in quanto a contrarietà di questa visione, gli aveva donato una pace interiore forse mai riscontrata prima d’ora. Bernard non ebbe figli, capendo soltanto in quel momento come Matilde sarebbe stata la donna ideale per lui. Lasciarla andare, per quanto inevitabile, celava un modo per difendere sé stesso, non allontanandosi dalla sua professione mal pagata quanto però da lui amata, sentendosi incapace di poter garantirle quanto sentiva doverle per viziarla come agognava. Rifiutato quel cambiamento troppo grande per sé stesso, non volle evidentemente saperne più di nessuno per la quale sacrificarsi, impegnandosi a dismisura in una solenne promessa d’amore. La sua chance di crescita era sfumata a Rio. Nella vita riuscì comunque ad accettare quel cambiamento tra ambizione, programmazione e aspettativa, dettato dal desiderio di diventare padre con quanto gli fosse effettivamente accaduto, riuscendo a interpretare al meglio la realtà formatasi dalle sue esperienze, prendendo la vita nella giusta misura, senza restarne auto travolto a causa della sue psiche.

Il più diverso era forse Orlando. L’eleganza con la quale erano tutti abituati a vederlo, l’aveva abbandonato ed era adesso più solare e raggiante. Orlando si era dato alla pittura e aveva girato in tanti paesi diversi per presentare le sue mostre. Aveva speso gran parte delle sue energie su quest’arte che lo faceva sentire vivo. Sul lavoro aveva perso i gradi gerarchici che si era conquistato in tanti anni di sacrificio e si sentiva meglio con minori responsabilità, una retribuzione più esigua ma ben più tempo libero e una cerchia di ammiratori del suo genere di nicchia che lo facevano considerare apprezzato e continuamente ricercato. Sorprese anche rivedere Alves de Souza, lo stregone brasiliano era ancora vivo nonostante avesse superato i 100 anni di età. Parlò poco in occasione del raduno ma sembrava ancora molto vigile, lucido e attento osservatore intorno a lui. Ricevette molte attenzioni e la sua fama a Rio era aumentata, in pochi erano forse stati più benvoluti di lui nell’arco della loro esistenza. Alves, con le lacrime agli occhi, venne a un certo punto avvicinato da Marcos che capì come volesse esternare la sua emozione e si sentisse ormai pronto anche a morire, dopo aver visto tutti loro più forti perché consapevolmente fragili. Lo riempieva di gioia notare come quel gruppo si fosse dimostrato forte, coeso e unito, uscendone reciprocamente migliorato da quell’esperienza comune. Avvertiva che quanto aveva dentro e voleva trasmettere loro era stato recepito da ognuno, sentendosi sinceramente grandioso e dai poteri magici che non era neanche in grado di comprendere, ancor meno di spiegare ma dai certi risultati perché beneficiato da questa enorme fortuna che gli aveva fatto spendere la sua lunga vita come meglio non avrebbe potuto, anche lui ligio alla sua scelta portata avanti con tanta passione e benevolenza nei confronti di tutti gli esseri umani incontranti nel corso del suo cammino.

Marcos si rendeva conto di quanto la comunanza con queste persone, vissuta in quell’hotel, fosse stata davvero significativa e formativa per tutti loro. Lui si sentiva quello meno influenzato perché già conscio della sua missione. La vocazione interiore che avvertiva, l’aveva sempre ascoltata, lasciandogli ampio spazio, senza reprimerla. Si sentiva un vincitore perché, in un modo o nell’altro, era sempre riuscito a farsi rispettare non lasciandosi sottomettere, colonizzare e rubare il suo tempo, vivendolo come lo faceva sentire libero e di conseguenza innamorato della vita: propenso a ben relazionarsi con gli altri, risultando sempre propositivo. Il suo rapporto con Esmualdo era notevolmente cambiato, i due ormai erano diventati come fratelli, smussando le parti dei loro caratteri che nell’affinità li rendevano insopportabili l’uno per l’altro. Esmualdo si era innamorato di una donna ben diversa da lui, alla quale aveva insegnato a modo suo a vivere in maniera più passionale, lasciandola andare come non aveva mai fatto. Lei era riuscita invece a dargli una regolata su altri aspetti, rendendolo un uomo più organizzato e in qualche maniera stabile. Un incontro tra apollineo e dionisiaco che funzionava nonostante i tanti litigi, per la mescolanza che andava a completare vicendevolmente nel suo singolare eccesso. Una ricetta vincente che anche i più simili e affini dovrebbero sforzarsi di concretizzare, equilibrando l’ago della bilancia anche verso quella diversità che nella vita ha un valore intrascurabile.

Al raduno si presentò anche Giovanni, che ricordò il signor Limbadi con la sua narrazione immaginifica sulla moglie del governatore brasiliano. Saldoao non era più al comando della nazione e aveva scritto un libro dove chiedeva scusa alla popolazione per i suoi comportamenti dell’epoca, pentito di certe scelte. Vi era anche un capitolo sulla vita personale, delineando dei tratti caratteriali della sua donna molto simili a quelli che era andato a immaginare Limbadi. Giovanni ci tenne a farne riferimento, esaltando la mente brillante di quel suo amico, al quale si era particolarmente legato, insieme a Simone e tutti gli altri, nel corso del lockdown. Il carattere della signora Saldoao, determinata a resistere e rimanere vicina al marito, si era infine rivelato determinante per il pentimento del governatore che, ancora in carica nel corso del suo mandato, aveva completamente cambiato mire, quando il gruppo dell’albergo si era ormai diviso. Al prete si confidò Dalinda, che si era sposata con un intellettuale e compositore di colonne sonore per film. La sempre bellissima donna bosniaca aveva trovato il suo equilibrio e la sua vena artistica, divertendosi anche lei a dipingere astrattamente sulle melodie suonate dal marito. Trascorrevano così tanta parte del loro tempo in mansarda, dove avevano adibito uno studio per dar sfogo ai loro hobby complementari, liberi da controllanti schemi impositivi. Giovanni si rese improvvisamente conto di come tutti si fossero trovati difronte a un aut aut (per dirlo alla Kierkegaard) riuscendo a scegliere nella maniera più logica, sensata, razionale e specialmente sentita, per portare avanti le loro decisioni iniziali, senza ripiegare stupidamente alla prima difficoltà, ormai certi dell’inevitabilità degli ostacoli e la bellezza del resisterne, continuando ad avanzare nella direzione prescelta, consci del vero sale e piacere della vita che dà adito a momenti più emozionanti proprio per l’emergere dai periodi complicati. Avevano messo tutti al centro l’amore da condurre in avanti con coraggio. Sullo stesso filone si vedeva pure lui, con la fede, la cui scelta contemplava inevitabilmente delle rinunce. Nessun uomo può decidere qualcosa che non significhi automaticamente escludere tutte le altre infinità di alternative possibili. Viviamo scommettendo e risulta forte colui che continua a perseguire, a resistere, a investire sulla sua lungimiranza, a ricordarsi di come ha scelto seguendo sia mente che inflessibilmente il cuore. Giovanni si sentiva un uomo coerente, come vedeva questa peculiarità anche in chi finalmente era tornato ad attorniarlo. La migliore loro qualità, che davvero li accomunava e riferì singolarmente a ognuno, era soggetta al saper servire il prossimo (come affrontare le imprevedibili e spesso impreviste circostanze), a saperlo quindi veramente amare, accettandone difetti e problemi. Servire Dio anche per lui era a volte una croce ma riusciva a trovarne sempre rinnovato slancio e quel sacrificio si trasformava in desiderio, lontano dalla sete di possesso e mira futura, quanto di beneficio istantaneo. Alcuni tra i presenti erano cambiati nella dimensione in cui una volta, alla prima bruciatura, avrebbero preferito fuggire, evitare, eludere il “fuoco” anziché smettere di cambiare e tentare di sostituire in balia dell’assenza di valori, per finalmente capire che nel perdurare e affiancare chi si accetta e col quale si resiste, vi è un futuro roseo. Giovanni lasciava anche spiragli per il cambiamento, da abbracciare qualora la situazione si dovesse far disperata, rinnegando la decisione alla base. Questa condizione andrebbe però ben riconosciuta con l’assenza di sentimento e non confusa con le condizioni che diventano (prima o poi inevitabilmente) sfavorevoli. Le belle storie di vita sono struggenti, non comode. Questo era forse il messaggio universale da inviare ai giovani, assoggettati a una società basata sul consumo che nulla ripara e tutto cambia alla velocità della luce, nell’attaccamento di un’aspettativa lontana e subito insoddisfacente (sempre se realizzata), senza rendersi conto di tendere all’infelicità certa.

Philip, nel rivedere tutti, era forse il più emozionato e commosso. In particolare, si soffermò su Matilde, con gli occhi lucidi, fiero di lei. Adesso non vi era più spazio per quella sorta di lotta per la ragione, tutto era interamente dedicato a una dose sproporzionata d’affetto. I due infatti si abbracciarono forte, per separarsi soltanto dopo un tempo che parve infinito agli altri, quanto limitato per loro. Il cambiamento di Matilde, non dava più alcuna possibilità di far ergere qualche difesa nell’uomo inglese, convogliandoli così nel trasmettersi reciprocamente tanta umanità assorta in una benevolenza e vicinanza inspiegabile per l’affinità che i loro modi di essere riscontravano. Philip sentiva di poter essere completamente onesto e le sue verità finalmente conciliavano precisamente con quelle di Matilde, che lo anticipò pur senza parlare, attraverso un sorriso che lo rese pienamente certo e consapevole dei suoi pensieri, rivolti all’allontanamento definitivo di quel vortice che l’aiuto lo rifiutava, non includendo pienamente in sé come a volte lasciava presagire di poter fare nella maniera più preponderante che si potesse concepire. Dagli apici più eclatanti, a dei bassi che finissero sotto terra, Matilde aveva effettivamente raggiunto una certa linearità che alimentava l’approdo a quelle vette ai più inesplorabili senza scendere al di sotto di uno standard dovuto alla sua ritrovata serenità interiore, come quando era una piccola Cenerentola nelle recite scolastiche. Philip, scherzando, le disse che tutta l’evidente forza che aveva trovato (e pensava di aver perso) non lo traeva in inganno, considerandola sempre la petulante ragazzina dentro quell’albergo. Matilde, col sorriso sul volto e una forte emozione interiore, gli rispose riuscendo a trattenere a stento qualche lacrima di commozione. Finalmente si sentiva anche lei il mondo, piuttosto che l’umanità, riconoscendo a Philip di esserlo sempre stato. L’uomo la guardava affascinato, fiero e profondamente felice. Facendosi serio, le confidò di averla sempre pensata, come se fosse stata un fantasma vicino a lui, una sorta di angelo custode, aleggiante in ogni singola giornata trascorsa. Matilde lo capiva bene, per lei era stato lo stesso. Avrebbe voluto ricominciare da zero, una volta finito quel periodo trascorso a Rio durante la pandemia, capì però che sarebbe stato ancora meglio avanzare – anziché tornare indietro – memore degli insegnamenti che ebbe modo di trarre. Si ritrovò per questo motivo piena di coraggio nel liberarsi di circostanze anche comode ma che non la convogliassero al meglio con tutto il suo cuore, per immergersi in quanto le fosse immensamente avvezzo e incline. Un tassello che le mancava, poteva finalmente esaudirlo. Ci teneva, come aveva fatto con molte altre persone appartenenti alla sua vita, a poter finalmente dire anche a Philip come fosse stato importante per lei, aiutandola a imparare ad alimentare, difendere, amare e omaggiare le relazioni, in una maniera tale che lui non aveva idea di avergli trasmesso. I collegamenti che si possono fare, osservando i comportamenti e le interazioni con gli altri, sono sempre misteriosi e questo venne colto con particolare gioia da Philip. Anticipandola, le chiese se potesse cercare lui le parole che le immaginava dentro. Matilde acconsentì, felice e certa che avrebbe ascoltato qualcosa che l’avrebbe fatta sentire pienamente compresa. L’ascolto infatti non la deluse, sentendosi dire che sarebbe potuta essere qualsiasi persona avesse desiderato diventare, attraverso le sue capacità e diverse intelligenze, con quella emotiva al centro di tutte, che solo i ciechi potevano non vedere, anche quando lei faceva di tutto per oscurarla. Philip continuò asserendo che l’esistenza di loro tutti, intrise delle loro scelte, sono passeggere e marginali se inserite in un contesto più ampio quale quello della vita e del mondo intero. Per i singoli, nella loro leggerezza, diventano preponderanti perché da umani ne abbiamo il desiderio che possano assumere importanza carica di densi significati, i quali possono apparire anche superficialmente contradditori, rivelandosi col tempo completi e avvolgenti. Matilde lo capiva bene, dopo esser stata in grado di far conciliare a meraviglia il suo estremo bisogno di calma, pace, stabilità e comfort zone, con l’anelito rivolto alla libertà, mettendosi in gioco, abbracciando le proprie paure, ritrovandosi capace di affrontare nuovi e sempre più grandi ostacoli, sorridendo davanti all’inconveniente, forte di saper fare il primo passo e, una volta in ballo, in grado di destreggiarsi, diventando così punto di riferimento e sprono per molti, soddisfatta della propria sfera privata ed emotiva, divenuta oramai la migliore versione di sé stessa.

La riunione ebbe termine con un brindisi, accompagnato da volti sorridenti. La prima ad allontanarsi fu la stessa Matilde, che una volta scesa in strada si sentì chiamare per un ultimo saluto dalla finestra da parte di tutti. Commossa, ricambiò quel bel gesto. Philip ebbe l’istinto di scendere ad abbracciarla ancora una volta e forse anche tentare di trattenerla. Si frenò, ritenendolo inappropriato. Ebbe però modo di sorridere, lanciando l’ultimo amo, gridando a Matilde un sincero grazie, certo che lei fosse in grado di recepirlo nella giusta maniera, dettato dal fatto di aver contribuito nella sua crescita, come lui era riuscito per lei. Fu a quel punto che Matilde, a testa alta, disse loro che erano stati la sua salvezza perché in grado di insegnarle come vivere secondo accettazione del prossimo e con gratitudine, al posto che chiusa, scissa e capace di mentire senza nemmeno accorgersene. Lei forse era stata davvero in grado di trasmettere a qualcuno più tenacia ma loro le avevano insegnato ad amare la sua fragilità, sotterrando l’ego con l’emotività a dominarlo. Quella serata era stata il lieto fine di un film. Stava raccogliendo i frutti della scia fatata che aveva seminato, appagando i cuori di ognuno. Matilde insistette ancora affermando che le era stato fatto capire di non poter cristallizzare la sua identità, di non essere una fotografia o un’etichetta statica, rendendosi conto della transitorietà della vita, intesa come il frutto di accadimenti da saper interpretare, affrontandola come una danza ebra e stupefacente, con la sua fiammella interiore sempre intensa a generare sensi e bellezza intorno a lei, riflettendo il suo splendore interiore. La sua forza si era convinta come fosse debolezza, perché effettivamente caparbia (se no non avrebbe potuto far diventare più uomo lo stesso Philip) ma specialmente incapace di perdersi lasciando dilagare quel senso di finta e auto distruttiva onnipotenza, decisiva per ripartire da sé stessa sapendo resistere e permanere nelle nuove situazioni, certa che attraverso i ricordi generati avrebbe trovato valore aggiuntivo all’iniziale dose d’amore che la fragilità – come dono più prezioso – le avrebbe suggerito. Il ringraziamento nei confronti di tutte quelle persone care che la guardavano come innamorate dalla finestra, si nutriva del fatto di averla fatta maturare, incapace di ripetere certi sbagli a inficiare le meraviglie che era straordinaria nel generare. Il suo cuore pulsava per quanto ricevuto da quelle persone, al punto da continuare a custodire la sua delicatezza anche per loro, rendendosi infinitamente apprezzabile nel suo divenire, in quel mutare nel tempo che ora sapeva con accuratezza come sprigionare ricoprendosi, e ancor più ricoprendo, d’affetto e amore puro.

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