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Superlega e romanticismo

La superlega è subito naufragata, dopo appena 48 ore. Le pressioni del governo inglese sui club della Premier League sono risultate determinanti, lasciando ai tifosi l’illusione di averla avuta vinta.

L’interesse di una politica interna che ha dato vita alla Brexit, e che tenta di difendere a ogni costo il mercato domestico senza che esso possa perderne potere, si è coadiuvato con gli interessi della UEFA.

Eppure i problemi del calcio, a me sembrano partire proprio da questa organizzazione che è mancata troppe volte nello svolgere il suo ruolo di controllo, divenendo una società con le sue ambizioni economiche e monopoliste. L’introduzione del fair play finanziario in particolare, basato sulle capacità di spesa dipendenti dal fatturato dei club, ha permesso alle squadre più ricche di mantenere salda la loro posizione di vantaggio sulle altre. In questa maniera, i campionati nazionali, sono diventati ancor più squilibrati e noiosi. A questo si è aggiunto prepotentemente l’ingresso nel calcio di sceicchi che hanno comperato il PSG e il Manchester City, pompando le valutazioni di cartellini e stipendi dei calciatori. La UEFA non ha mai punito questi comportamenti, come per regolamentazione avrebbe dovuto, drogando un mercato al rialzo, con costi sempre più elevati a fronte di ricavi sempre uguali, se non in diminuzione a causa di format obsoleti e sempre meno attraenti per gli appassionati di calcio (che nei più giovani preferiscono ormai i videogame simulati al calcio vero).

La Superlega intende agire in questa direzione per aumentare i ricavi (in considerazione di un prodotto calcio che è ben più spendibile di quanto realizzato finora) e liberarsi della UEFA che non è in grado di vigilare, badando – sempre più ingorda – al proprio tornaconto. Le difficoltà economiche dei principali club europei, non possono essere esenti da colpe individuali di gestione. La loro mira di restare assolutamente competitive, le hanno indotte a non poter adesso sopportare la più importante riduzione dei ricavi, causata dalla pandemia globale. Il problema alla radice dell’aumento esponenziale dei costi, rimane però additabile alla UEFA che ha consentito ai club con più capacità di spesa di agire indisturbati nel tentativo di ottenere qualche vittoria sportiva a suon di centinaia di milioni di euro.

Se affondano i grandi club, a cascata, ne risentono anche i piccoli che si accaparrano diritti televisivi, entrate economiche dai botteghini e interesse generale intorno a loro, principalmente grazie alle big del loro stesso paese che gli strapagano anche i cartellini dei loro giocatori più bravi, avendone le risorse economiche adeguate e possedendo le strutture e il blasone necessario per trattenerli, una volta in grado di fare un balzo di carriera. Con un campionato nazionale meno importante, con i grandi club che giocherebbero più match in Europa, affrontando le partite interne al proprio territorio con meno interesse competitivo, le piccole avrebbero anche più chance per competere per il titolo, potendo mirare a risultati impossibili attualmente, come quello di conquistare uno scudetto.

Risultano ipocriti gli appelli dei tifosi al grido del “calcio del popolo”, contrario a un torneo d’élite tra i club più blasonati d’Europa. Può essere discutibile la forma che non consente a queste squadre di poter retrocedere, in quanto fondatori, non si può però andare oltre, considerando il contesto continentale all’interno del quale il calcio si manifesta e a quanto già assistiamo da decenni. Se nell’Europa capitalista siamo infatti ormai tutti dei consumatori, piuttosto che delle persone, non può sorprendere se nel calcio risultiamo clienti, anziché tifosi. Il sistema economico vigente, si mangia ogni cosa. La ingloba e lascia girare intorno agli interessi economici. Ne sono soggetti anche gli sport e le arti, tutto è ormai mercificato. Nessuno può fuggire e se ci si rende conto che non piace, non ha alcun senso puntare il dito su una sola attività (quale sia questa che gira intorno al mondo del pallone) perché non adeguarsi significherebbe far morire tutto il movimento.

Io mi reputo il primo dei romantici, non ho ancora digerito il cambio del logo e non sopporto le maglie meno tradizionali. Mi sentirei però stupido a combattere i tempi che cambiano, senza capire che sul calcio trovano soltanto degli effetti collaterali di un sistema che, per gli effetti desiderati, andrebbe arrestato alla radice (ma nel caso, considerando le possibili alternative, si produrrebbero altre gravi problematiche).

Il mio approccio prevede di trovare i miei spazi all’interno della realtà, laddove poterci immettere una personale amata dose di romanticismo. Nell’ambito calcistico, ci riesco ad esempio restando vicino alla mia squadra del cuore, senza mai perdermi una sua partita, continuando a vivere le sue vicende (in una sorta di allenamento per tutto il resto) con sentimento e senza quantificazioni. Questa è la mia resistenza ai lati negativi di questo mondo, dal quale prendo i vantaggi e ne trasformo le disgrazie rendendole a me inclini nella possibilità di potermi sempre esprimere per chi indagando mi sono avvicinato a credere di essere.

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